C’è chi in ufficio fa il conto alla rovescia per partire per le ferie, e chi si porta il lavoro anche in vacanza. In spiaggia per qualcuno il relax esiste a tratti, impegnato com’è a controllare mail, leggerle e scrivere risposte, rispondere alle telefonate di lavoro, cercando una continua connessione internet. Lo hanno nominato “workcation”, letteralmente “Working On Vacation”, questo agire che da qualche tempo si è fatto strada tra alcune categorie di lavoratori. L’incapacità di scindire vita e lavoro potrebbe, però, essere rianalizzata, se si pensa di andare in vacanza più spesso pur essendo meno liberi, dal momento che basta un pc e il wifi per lavorare in qualsiasi parte del mondo. La distinzione sembrerebbe farla l’età: per i giovani nomadi, infatti, lavorare in vacanza è un segno del loro tempo, a differenza delle generazioni precedenti per cui rappresenta una tragica conseguenza della modernità.
«Bisogna ascoltare se stessi e i propri limiti per capire quando è arrivato il momento di staccare momentaneamente la spina per evitare un burnout mentale. La nostra cultura in continua presa diretta non ci aiuta minimamente a staccare dalla routine lavorativa ed è per questo che i cicli che compongono le attività quotidiane conditi da pensieri legati agli insuccessi lavorativi o ai fallimenti aziendali, diventano addirittura un incubo nel periodo delle ferie. La pausa estiva rappresenta una forma di manutenzione obbligatoria da attuare per continuare ad apportare risultati efficaci per l’azienda, nel team e in famiglia. Pensando in termini di semplificazione, l’obiettivo è quello di sospendere le attività e limitarsi al minimo indispensabile durante le vacanze», afferma la coach Marina Osnaghi in un report di Espresso Communication sul tema lavoro/vacanza.