Nel mese di giugno cadono due anniversari molto importanti nella storia della Chiesa. Si tratta di un duplice sessantesimo: il 3 giugno ricorre quello della morte di Giovanni XXIII e il 21 dello stesso mese ricorre quello dell’elezione al soglio pontificio di Paolo VI. Viene quindi spontaneo – e da un punto di vista storico molto utile – fare qualche raffronto tra la visione della Chiesa di papa Francesco e la visione della Chiesa sia di papa Giovanni XXIII che di papa Paolo VI.
Con una precisazione molto importante: tutte e tre le personalità sulle quali vogliamo riflettere sono espressione del loro tempo e di conseguenza, essendo i tempi diversi, non è possibile trovare delle coincidenze assolute. Sarebbe anche sbagliato cercarle e, dopo averle cercate, trarre delle conseguenze che non tengano conto dei “segni dei tempi”.
In questa sede, imbarcandoci in una riflessione come quella appena proposta, è possibile più facilmente verificare se nei tre papi esistono presupposti culturali coincidenti oppure si riscontrano impostazioni assai diverse. Per fare questa riflessione crediamo sia interessante, ma soprattutto fecondo, partire da qualche documento che possa illuminare questo tipo di ricerca.
Ci sembra allora efficace un esame sia pur sintetico di tre testi, per alcuni versi programmatici, dei tre pontefici. Per Francesco ed il suo pensiero utilizzeremo la “Evangelii Gaudium”, per Giovanni XXIII il discorso dell’apertura del Concilio, con qualche richiamo alla “Mater et Magistra” che precede il precitato discorso e qualche sottolineatura ricavata dalla enciclica “Pacem in terris” che è invece successiva all’allocuzione del 4 ottobre 1962. Per Paolo VI infine faremo riferimento alla sua enciclica del 6 agosto 1964, la “Ecclesiam suam”, da lui definita esortatoria, perché pubblicata mentre è ancora in corso il Concilio Vaticano II che, tra l’altro, proprio nello stesso periodo sta discutendo sullo schema relativo alla costituzione sulla Chiesa.
L’esortazione “Evangelii gaudium” scritta da Francesco appena dopo il sinodo ordinario del 2012 nella sostanza può anche essere considerata il documento programmatico del papa che da pochi mesi è stato eletto al soglio pontificio. La sua lettura permette anche oggi – e sono ormai passati 10 anni – di ricavare indicazioni e linee operative quando mai attuali. Tra le tante idee che si possono cogliere intendiamo in questa sede prenderne in esame tre: il decentramento decisionale, la Chiesa in uscita e la costruzione della pace nella casa comune.
Innanzitutto Francesco avverte l’importanza di un nuovo modo di concepire la comunità ecclesiale. Nell’età contemporanea non è più attuale pensare ad una chiesa piramidale. Il vertice della piramide – ossia il papa – non è più in grado di governare come un sovrano assoluto il Popolo di Dio, perché la dimensione universale della Chiesa comprende culture, sensibilità, tradizioni che non hanno tutte la stessa radice.
Questo concetto è affermato in modo chiaro in una dichiarazione del Sommo pontefice: “Non è opportuno che il papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso avverto la necessità di procedere in una salutare decentrazione”.
Le parole non lasciano ombra di dubbio sul comportamento che Francesco intende fin dall’inizio seguire. Al lettore attento alla sensibilità che è sottintesa alle sue parole non sfugge anche l’aggettivo “opportuno” e il suo contenuto. Per questo pontefice, quanto esprime, non rappresenta una verità di fede ma un consigliato spirito di comportamento, che in questi tempi rappresenta per Lui una linea di azione conveniente che, in futuro però, potrebbe pure modificarsi e diventare più vincolante per un’istituzione cristiana che si sarà ulteriormente sviluppata, diventata ancora più matura quindi, ed incardinato nelle culturalmente diverse nazioni del mondo.
In ogni caso la Chiesa di Francesco è ormai una comunità che cammina con sensibilità diverse, sensibilità collegate ai vari territori. Ciò che la tiene unita è il Vangelo con i suoi valori universali.
Un secondo punto importante che si ricava dall’Evangelii Gaudium riguarda l’attività della Chiesa e quindi l’attività del Popolo di Dio. La visione che Francesco ha per quanto riguarda l’azione del Popolo di Dio è missionaria. Tutta la comunità è chiamata a riprendere un cammino di evangelizzazione, cammino che riguarda sia il suo interno che il suo esterno.
Il mondo contemporaneo ha bisogno di sentire riproposti i valori del Vangelo. A ben guardare questi valori sono poco conosciuti e quindi disattesi, a cominciare proprio dai cattolici. Di conseguenza, venendo a mancare la condivisione dei credenti, il messaggio cristiano trova difficoltà in una diffusione a più largo raggio. Il Popolo di Dio deve allora iniziare, ripiegandosi su se stesso, un momento di approfondimento, per riscoprire la profondità del messaggio di Cristo, nello stesso tempo però deve sviluppare un’intensa attività di propaganda del Vangelo.
Qui però si apre un discorso molto importante: nel diffondere il Vangelo il cristiano non deve proporsi come fine l’imposizione dei valori contenuti nella Buona Novella. Il suo contenuto infatti deve trasformarsi in una proposta da presentare ad altri soggetti che non sono cristiani, per contribuire alla costruzione della casa comune. In parole semplici il cattolico è chiamato ad offrire una collaborazione che può servire, messa accanto a proposte di vita che derivano da altre fedi o da altre culture, per realizzare una realtà nuova a misura d’uomo. Da queste premesse culturali deriva il sinodo, cioè quel camminare insieme che si basa su una solidarietà che contiene anche il rispetto della diversità.
Sempre dall’esortazione “Evangelii gaudium” si possono ricavare gli elementi portanti della casa comune alla cui costruzione devono contribuire tutti gli uomini a prescindere dalla loro fede. Naturalmente, per realizzare questo progetto è indispensabile operare nel rispetto della natura, che per papa Francesco non solo è sinonimo di creato, ma è anche un soggetto meritevole di attenzione e cura.
In altre parole la natura non è un bene dato all’uomo affinché la usi a suo piacimento, ma è un protagonista all’interno della casa comune che ha leggi sue.
Qualcuno infatti a questo proposito ha detto: “Dio usa sempre misericordia, gli uomini qualche volta la applicano, la natura invece non perdona se non viene rispettata”. Allora è necessario nella gestione della casa comune il suo rispetto. Queste linee della Evangelii Gaudium hanno trovato, durante gli anni, un’ulteriore esplicitazione nelle due encicliche “Laudato si” e “Fratelli tutti”.
Una riflessione su quest’ultimo documento in questa sede va fatta. Non si tratta di un testo ecologico, sono invece pagine con un forte significato sociale. Il rispetto ecologico nell’ impostazione operativa della casa comune è condizione per garantire alle popolazioni più povere di risollevarsi e di migliorare il già pesante ritmo di vita, sostanzialmente densa di sofferenze.
Tra i tanti valori che devono essere sempre tenuti in evidenza per rendere solida la casa comune, c’è quello molto attuale, data la situazione mondiale, della pace. Avverte papa Francesco l’importanza di lavorare per la sua attuazione, anche perché ritiene che oggi l’umanità stia vivendo la terza guerra mondiale, con i tragici rischi che possono derivare da questo nuovo conflitto che ha una sua peculiarità.
Quest’evento bellico è la conseguenza non solo di situazioni pesanti da un punto di vista economico, ma è anche conseguenza di una visione di supremazia di uno stato, la Russia, che vuole, invadendo l’Ucraina, ripristinare quell’autorità dominatrice che si pensava superata dopo la caduta del muro di Berlino. Papa Francesco è profondamente convinto che il mondo cattolico, nella fattispecie concreta, la Santa Sede, possa svolgere un vero ruolo di soggetto super partes, senza particolari interessi cioè, per dare un autentico contributo alla costruzione della più volte citata casa comune.
Fatte tutte queste sottolineature, riferite all’attuale Pontefice, desideriamo allora fare qualche collegamento tra il pensiero di papa Francesco e la visione del mondo di due papi, Giovanni XXIII e Paolo VI, dei quali, come accennavamo all’inizio, ricorrono due date significative proprio nel mese di giugno: il sessantesimo anniversario della morte del primo ed il sessantesimo anniversario dell’elezione al papato del secondo. Due papi che, tra l’altro, sono stati riconosciuti e vengono celebrati dal mondo dei credenti come santi.
Papa Roncalli – Giovanni XXIII – sicuramente ha dato un notevole contributo alla costruzione della Chiesa, così come viene descritta e voluta da Francesco. Se Francesco è profondamente convinto, come del resto si legge nel suo documento programmatico scritto dopo il sinodo del 2012, che si debba nell’organizzazione della Chiesa tenere conto delle istanze che vengono dal vasto territorio cattolico e quindi che si debba dare voce alle varie proposte del Popolo di Dio, questa convinzione è maturata in lui anche in conseguenza della visione che Giovanni XXIII, fin dai primi giorni del suo pontificato, ha tracciato.
Certamente su papa Roncalli ha fatto sentire tutto il suo peso la pregressa esperienza come nunzio apostolico in varie nazioni dell’Europa orientale. In questi anni di contatto e di vita quotidiana con queste popolazioni e con le loro istituzioni religiose e civili, il nunzio Roncalli avverte l’importanza del dialogo e soprattutto si sviluppa in lui una nuova visione della Chiesa, intesa come comunità in grado non di imporre un nuovo modello di società – la società cristiana, che tanto piaceva ai suoi predecessori – ma di contribuire a costruire una società alla cui edificazione debbano concorrere tutti i componenti delle varie realtà sociali, portando ognuno quel contributo, che deriva dalle sue tradizioni e quindi dalla sua cultura.
Il cristiano, per papa Giovanni, è uno dei costruttori di una nuova società e non il costruttore unico. Quindi parla di dialogo e comprensione, ma non solo. Papa Giovanni XXIII avverte che, anche all’interno della comunità cattolica, ci sono molte sensibilità che non vanno soppresse, ma devono essere messe in condizione di svilupparsi perché, cogliendo i segni dei tempi, possono essere molto utili allo sviluppo della società umana.
È talmente convinto di questa idea che dopo pochi mesi dalla sua elezione, comunica al mondo il suo proposito di convocare un concilio ecumenico. Sarà la più numerosa assemblea della storia della Chiesa e non sarà la conclusione del Concilio Vaticano I del 1870, rimasto sospeso in conseguenza dell’occupazione di Roma da parte dei Bersaglieri dell’esercito sabaudo, occupazione che pose fine al potere temporale del papa.
La scelta di convocare un nuovo concilio ha un significato molto preciso: offre l’occasione ai vescovi di far sentire la voce delle comunità locali, che possono avere intuizioni utili a rendere fresco e comprensibile, ma soprattutto di attuare il messaggio evangelico che da qualche decennio corre il rischio di essere incartato nelle fredde formule, imparate a memoria, del Catechismo di Pio X. Per Giovanni XXIII la Chiesa deve cogliere – e l’espressione finirà per entrare nella storia del Cristianesimo – i segni dei tempi.
Una conferma di quanto appena richiamato. L’omelia pronunciata da Giovanni XXIII all’apertura del Concilio vuole essere un messaggio pieno di ottimismo, perché ritiene la Chiesa in grado di superare tutte le difficoltà del caso. Tra l’altro dalla storia si ricava un preciso insegnamento: non sono solo del secolo XX le difficoltà e le crisi della Chiesa, in quanto questa comunità ha avuto, nei suoi due millenni di vita, molti momenti di crisi, ma ha saputo superare tutti le difficoltà, conseguenza anche di errori commessi.
Il concilio, con la collaborazione di tutti i suoi componenti, farà una volta per sempre tacere i profeti di sventura, che “non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano peggiori; arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cattolica, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa”. Proprio per tutti questi motivi Giovanni XXIII è ottimista e dichiara: “A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura che annunciano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo”.
Questa nuova visione della Chiesa si trova anche nei due documenti più importanti del magistero di papa Roncalli, nella “Mater et Magistra” del 1961 e nella “Pacem in terris” del 1963. Le due encicliche meriterebbero anche ulteriori approfondimenti, ma questo discorso sarà affrontato in altra sede.
Qui mi sembra importante richiamare un concetto presente nella “Pacem in terris”, perché è da considerare una chiave di volta per giustificare il dialogo con tutte le componenti dell’umanità: la separazione tra errore ed errante. Se l’errore è sempre sostanzialmente da condannare, l’errante invece merita rispetto e deve avere la possibilità di confrontarsi con tutti, anche con i cattolici. Anzi, per la realizzazione di alcuni valori, in modo particolare la pace, è doveroso pure da parte del cattolico il colloquio e la collaborazione. Vediamo , in tutti questi cenni riferiti al pontificato giovanneo, una serie concreta di presupposti che stanno anche alla base dell’azione pastorale di Francesco, che tra l’altro della Chiesa in uscita ha fatto il presupposto fondamentale del suo operare.
Anche la visione che Paolo VI ha della Chiesa senza dubbio ha influenzato e continua ad influenzare Francesco che, di Paolo VI, coglie sicuramente due pensieri: la sua concezione di collegialità sinodale e la dottrina sulla pace, introducendo per quest’ultima anche ulteriori elementi per rendere questa descrizione contenutistica più vicina alla situazione mondiale attuale.
Per quanto riguarda la collegialità sinodale, portato avanti da Francesco il magistero di Paolo VI, ha offerto all’attuale pontefice i presupposti basilari per la costruzione di un progetto di Chiesa sinodale. Papa Montini infatti vive una particolare esperienza, quella della gestione del Concilio Vaticano II che, per molti aspetti, apre un grosso dibattito sul ruolo del pontefice e sui compiti dei vescovi.
Durante l’assise conciliare Montini vive il problema – espresso ora in queste righe in termini grezzi e sintetici – del ruolo del pontefice e, nella sostanza, dei suoi poteri. Da diversi gruppi conciliari è infatti rimarcata in termini pure autorevoli, tenendo conto del prestigio di chi fa queste affermazioni, la necessità di una maggiore collegialità nell’adottare le decisioni. In parole semplici si avverte l’opportunità che su scelte importanti non sia solo il papa a decidere, ma che le decisioni papali siano la conseguenza di valutazioni più partecipate.
Poiché non sarebbe neppure pensabile una soluzione che preveda di convocare in continuazione concili ecumenici, Paolo VI, profondamente convinto dell’importanza delle sollecitazioni venute avanti durante l’assise conciliare, sceglie una soluzione che per certi versi risponde alle istanze dei vescovi e nello stesso tempo presenta, da un punto di vista pratico, una più elastica e dinamica possibilità di attuazione. Il pontefice trova la soluzione, che tenga conto delle due esigenze, individuando nel sinodo l’istituto idoneo a garantire un maggior coinvolgimento delle chiese periferiche nella vita della comunità cattolica. In questo modo Paolo VI introduce un’istituzione che può garantire una più concreta collegialità, a partire addirittura dal nome.
Sinodo infatti è una parola greca, che vuole significare “camminare insieme”, o se si vuole, in modo più letterale, “sulla stessa strada”. Fare la stessa via significa aver scelto o scegliere un percorso comune e condiviso. L’intuizione di papa Montini, trasferita in atti concreti – i primi sinodi sono stati convocati proprio da lui – introduce un percorso di condivisione delle scelte che troverà proprio in papa Francesco un deciso sostenitore.
Il sinodo come strumento di collegialità, nonostante sia stato istituito da diversi decenni, per alcuni aspetti comprensibili non ha ancora trovato un assetto definitivo.
Citiamo due elementi idonei a dimostrare quanto appena affermato. Fin dal momento della sua impostazione e attuazione, Paolo VI sceglie di non riconoscere all’organismo sinodale una competenza su tutte le materie. Papa Montini non è del tutto nuovo a razionamento di poteri. Ad esempio, ancor prima della nascita di questo organismo, avoca alla sua puntuale e precisa competenza la questione del controllo delle nascite.
Qualche tempo prima dell’istituzione del sinodo, forse per evitare che l’argomento venga trattato in modo difforme nei vari episcopati nazionali – e i segnali esistono tutti – pubblica l’enciclica “Humanae vitae”, che gli comporta anche violente critiche nel mondo cattolico. Alla base di tutto un motivo, Paolo VI ha infatti un forte timore che possano su alcune questioni emergere differenze in grado di incrinare l’unità della Chiesa, quell’unità che i credenti nella loro professione di fede proclamano come valore indiscutibile. Al fine di evitare che questo accada, papa Montini ribadisce il suo esclusivo potere decisionale.
Oggi – e questo è il secondo esempio quanto mai attuale che facciamo sulla competenza esclusiva del pontefice, argomento che tormenta anche papa Francesco – è aperto il problema del matrimonio dei sacerdoti, problema che nello svolgimento anche degli ultimi due sinodi, è sfiorato nella discussione. Francesco però non ha lasciato ai vescovi sinodali la possibilità di affrontare questo tema, avocando a sé la questione.
Per chiudere il richiamo sui poteri dei padri sinodali diciamo che oggi come ieri è in corso una riflessione sugli ambiti di intervento del sinodo. Ancora aperto poi il dibattito per quanto riguarda la sua composizione. Francesco infatti è già intervenuto due volte, modificando non solo da un punto di vista numerico l’istituto, ma introducendo anche variazioni di genere, in quanto ritiene di dover riconoscere ruoli sempre più significativi all’interno della Chiesa alle donne.
Sull’altro punto, quello della pace, Paolo VI la ritiene un valore fondamentale al quale va però dato un nuovo contenuto. Il pontefice infatti, nell’enciclica “Populorum Progressio”, affronta anche il problema della pace, partendo da un principio portato avanti dagli studiosi cattolici di economia del periodo – tra questi anche Francesco Vito – che hanno sostenuto la necessità di garantire la crescita socio-economica delle popolazioni, in particolare quelle del Terzo Mondo, educandole a produrre beni.
In parole estremamente elementari questo il concetto fondamentale: per garantire la pace e di conseguenza evitare conflitti è indispensabile che ogni popolo sia in grado di produrre ciò che è indispensabile per la propria esistenza decorosa. Il tutto si può sintetizzare con un’espressione molto precisa: il nuovo nome della pace è sviluppo.
Per quanto riguarda dunque il problema pace, il pontefice fa sua la teoria secondo la quale un corretto e solido sviluppo di un popolo non solo risolve i problemi legati alla sua sopravvivenza ma è strumento per garantire la pace mondiale. Oggi questa visione può considerarsi per certi versi insufficiente e quindi superata. Non a caso infatti Bergoglio introduce nuovi concetti, ma negli anni Sessanta del Novecento, questa impostazione rappresenta una novità culturale importante. In questi anni infatti è ancora diffusa una vecchia visione relativa alla pace.
Si definisce come pace l’assenza di guerra non tenendo in giusta considerazione la realtà socio-economica del Terzo Mondo, che diventa in questo periodo un’area ad alto rischio di esplosione sociale. Di fronte a questo stato di cose, Montini propone ai paesi ricchi di contribuire garantendo la crescita economica e culturale dei paesi poveri, aiutandoli anche ad imparare a coltivale le loro terre. Paolo VI introduce in questo modo una nuova visione di aiuto ai popoli poveri.
Ci sembra opportuna a questo punto una sottolineatura finale. Anche per Paolo VI è importante il dialogo. Magistrali a tal proposito sono i concetti che si possono ricavare dalla lettura dell’“Ecclesiam Suam”, documento programmatico del suo pontificato.
Abbiamo, prendendo qua e la nel pensiero di Francesco, di Giovanni XXIII e di Paolo VI, trovato una serie assai importante di coincidenze. Di conseguenza in modo sintetico possiamo dire che un filo molto preciso di continuità esiste.
Prof. Franco Peretti
Cultore di storia della Chiesa