Ne sentiamo parlare tutti i giorni in televisione e ne troviamo traccia ormai su qualsiasi quotidiano ma sono argomenti rispetto ai quali, sia in termini di definizione che di contenuti, ci sono ancora diffidenza e soprattutto confusione. Si badi bene, si tratta di temi attuali e caldi come la stagione che stiamo vivendo (ringraziamo i cambiamenti climatici!) e ritengo sia opportuno per chi affronta una lettura in materia di ambiente comprenderne e ricordarne con maggiore facilità il significato.
Il concetto di sviluppo sostenibile (“substainable development”) venne utilizzato per la prima volta nell’anno 1987 all’interno del celebre “Rapporto Bruntland”. La dottoressa Gro Harlem Brundtland era una politica norvegese a tutt’oggi fortemente impegnata nel difficile campo della difesa dell’ambiente.
Già alla guida del Governo del proprio Paese, la Bruntland fu nominata Presidente della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo nel 1983 dall’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Javier Perez de Cuellar, che incaricò la Commissione di realizzare un documento di portata globale per il cambiamento (“a global agenda for change”).
Alla base del mandato vi erano le continue preoccupazioni in seno alle Nazioni Unite dell’aumento della divergenza di trattamento degli interessi dei paesi più poveri del pianeta che tentavano di progredire e quelli dei paesi più ricchi, già muniti di modelli produttivi e di consumo che si stavano però dimostrando insostenibili per l’ecologia.
In buona sostanza si chiedeva alla Commissione di individuare la giusta sintesi politica per consentire ai paesi in via di sviluppo di potersi mettere al passo di quelli già avanzati senza più dover compromettere il precario equilibrio degli ecosistemi.
Veniva così alla luce, dopo quattro anni ininterrotti di lavori, il rapporto “Our common future” (“Il futuro di tutti noi”) che andava a riconoscere il ruolo di rigorosa connessione tra sviluppo e ambiente. Il Rapporto Bruntland affermava la necessità di sviluppare ed adottare una strategia comune mondiale che fosse capace di far convivere le esigenze di sviluppo nel rispetto dell’ambiente.
Nacque così il concetto di sviluppo sostenibile, definito come “quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri ”.
Tale definizione rappresenta ancora oggi un baluardo in materia ambientale e costituisce un vero e proprio faro di riferimento per le moderne politiche di moltissimi paesi.
È ipotizzabile che, quando nel Rapporto Bruntland si parlò della necessità di sviluppare nuovi sistemi innovativi per bilanciare gli interessi di progresso e ambiente, a qualcuno fosse già passato per la testa l’idea che il modello di economia circolare potesse stravolgere il futuro.
Purtroppo, pur parlandone da almeno 50 anni (le prime teorie risalgono alla seconda metà degli anni ’60 dello scorso secolo) eccoci qua, ancora oggi, a rilevare come questo tipo di sistema sia ancora per molti settori produttivi in fase di studio e progettazione. Per questo motivo definire e pensare all’economia circolare come un modello moderno lascia quantomeno un po’ perplessi.
Ma cosa si intende quando si parla di economia circolare? L’Unione Europea la definisce come un modello di produzione e consumo organizzato per condividere, riutilizzare, riparare, rinnovare e riciclare il più a lungo possibile i beni che ne sono oggetto, cercando di prolungarne continuamente nel tempo il ciclo vitale.
In buona sostanza l’obiettivo è quello di ridurre al minimo gli sprechi. Quando un bene raggiunge il fatidico “fine vita” viene recuperato e riutilizzato perché diventi una nuova risorsa.
Si tratta all’evidenza di un sistema rivoluzionario in quanto diametralmente opposto a quello consumistico che per anni ha permeato il nostro quotidiano. Pensiamo solo a quanti prodotti “usa e getta” abbiamo acquistato, spesso composti da plastiche non degradabili come i contenitori per alimenti o alcuni prodotti per l’igiene, realizzati secondo il concetto del “monouso”.
E pensiamo ora all’utilità di un simile modello. Anzitutto riciclare un prodotto implica un minore impatto ambientale in termini di inquinamento. Riutilizzare un bene significa poter disporre di una materia prima senza doverla necessariamente creare, estrarre o acquistare: da ciò ne discende un risparmio.
Usare una seconda volta un materiale comporta una minore emissione di sostanze nocive che invece verrebbero prodotte nel caso di suo trasporto e smaltimento. Ogni famiglia che sostiene la raccolta differenziata dei rifiuti nel proprio Comune contribuisce ad un ambiente più pulito e può ottenere benefici in termini fiscali, senza dimenticare che dal cosiddetto “umido” vengono realizzati biogas e fertilizzanti ovverosia nuovi prodotti.
Ogni impresa che riutilizza un prodotto giunto a “fine vita” risparmia sulla nuova materia prima e può diventare più competitiva all’interno del proprio mercato di riferimento. E così via.
L’Unione Europea negli ultimi anni ha virato in maniera netta verso politiche ecosostenibili inducendo gli Stati membri ad allinearsi a tale orientamento. Nel marzo 2020 è stato presentato il Piano d’Azione per l’Economia Circolare per agevolare la transizione verso un’economia sempre più circolare.
Nel febbraio 2021 il Parlamento Europeo ha insistito per adottare regole più stringenti in tema di riciclo e per individuare degli obiettivi da raggiungere entro la fine del corrente decennio. Nel marzo 2022 la Commissione Europea ha presentato un pacchetto di proposte tra le quali spiccano quella per rendere i prodotti a marchio UE ecosostenibili, quella per incentivare i modelli imprenditoriali circolari e quella per responsabilizzare i consumatori e indirizzarli verso la transizione verde.
Qualcosa si sta muovendo.
Stefano Fioramonti
Avvocato – Giurista Ambientale