• 23 Novembre 2024
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Scuola, l’istruzione come diritto sociale: un po’ di storia

Prima parte: dalle origini alla fine dell'Ottocento

In questi ultimi tempi, da più parti, viene sottolineata l’importanza dell’istruzione. Anche recentemente, nel suo discorso di presentazione del governo alle Camere, il presidente del Consiglio Draghi ha voluto richiamare l’importanza della scuola e di conseguenza il ruolo fondamentale dell’istruzione nell’attività di governo.

Diventa allora utile fare qualche riflessione sul concetto di diritto all’istruzione, cercando pure di introdurre qualche riferimento storico sull’argomento, perché non da sempre all’individuo è stato riconosciuto un suo preciso diritto all’istruzione e non da sempre allo Stato viene assegnato un compito molto importante, quello di garantire l’esercizio di questa prerogativa.

Le prime norme sul diritto all’istruzione

Il primo documento legislativo che affronta il problema del diritto all’istruzione è l’“Atto costituzionale del 24 giugno 1793 con la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” emanato a Parigi, quattro anni dopo lo scoppio nel 1789 della Rivoluzione Francese. Si tratta di un provvedimento del periodo giacobino, per la verità mai entrato in vigore.

Da un punto di vista storico, è da considerare per la questione che stiamo studiando una tappa fondamentale, perché all’art. 22 recitava: “L’istruzione è un bisogno di tutti. La società deve favorire con tutto il suo potere i progressi della ragione pubblica e mettere l’istruzione alla portata di tutti i cittadini”. In questo testo appena citato per la prima volta nella storia delle istituzioni politiche si fa riferimento da un lato al diritto dell’individuo all’istruzione, dall’altro al dovere della società, cioè dello stato, a provvedere a mettere “l’istruzione alla portata dei cittadini.

Con un simile atto legislativo viene superata la visione liberale e viene disegnata una funzione anche sociale dello Stato. L’affermazione merita qualche spiegazione. Prima della Rivoluzione Francese, che fu una rivoluzione della borghesia, diventata ormai classe dominante in Francia, i teorici dello stato moderno, nella sostanza i filosofi politici liberali – la teoria infatti che stiamo per esporre rappresenta il nucleo principale della loro dottrina – riconoscevano all’individuo quattro diritti fondamentali: il diritto alla vita, il diritto alla libertà, il diritto alla proprietà e il diritto a difendere i citati diritti.

Al fine poi di evitare che i cittadini, per difendersi dai soprusi, si facessero giustizia da sé (ne cives ad arma veniant), con il rischio di veder prevalere la legge del più forte, che avrebbe potuto sostituire alle soluzioni giuste la sua volontà prepotente, aggiungevano che il diritto di difendersi dovesse essere trasferito ad una entità speciale, nella fattispecie lo Stato, il quale non aveva nessun altro specifico compito se non quello di garantire la giustizia.

Nel 1793 invece, per la prima volta, si riconosceva che, se da un lato il cittadino aveva il diritto all’istruzione, dall’altro lo stato aveva il dovere di attuare tutte le procedure necessarie per garantire l’istruzione. Naturalmente questa affermazione legislativa fu, se si vuole essere precisi, il risultato finale di un percorso durato almeno tre secoli. Della necessità di istruzione per l’individuo si cominciò a parlare in termini assai diffusi nell’Umanesimo e nel Rinascimento – per citare la realtà italiana.

Anche in Francia il tema era discusso, in modo molto approfondito a partire dal Seicento, il secolo d’oro della cultura d’Oltralpe del resto, se l’uomo doveva essere homo faber fortunae suae, doveva avere una solida istruzione. Questo ampliamento dei diritti individuali, con l’inserimento del diritto all’istruzione, produsse conseguenze pure nell’ambito dell’istruzione statale. Non toccò più da quel momento allo Stato solo la funzione di gendarme e di giudice. Allo Stato incominciò ad essere assegnato un nuovo importante compito, quello di garantire l’istruzione dei suoi componenti. Nacque pertanto una nuova funzione, che venne definita sociale.

Questo ultimo aggettivo merita una sottolineatura, che serve a spiegare perché “sociale” si addice al diritto di istruzione. A differenza dei diritti individuati in precedenza come prerogativa della persona – per intenderci, quelli riferiti alla vita, alla libertà e alla proprietà – il diritto all’istruzione è da considerare sì una prerogativa da garantire alla persona, ma con una peculiarità da evidenziare: serve a sviluppare la personalità ma, nello stesso tempo, offre un contributo al miglioramento della società, perché un soggetto preparato non solo riesce ad essere protagonista migliore nelle sue azioni comportamentali, ma è anche più efficace nel contribuire alla crescita della comunità nella quale vive.

Partendo da questa visione, che mette in risalto la funzione anche pubblica del diritto all’istruzione, si incomincia a sostenere la necessità dell’intervento dello stato al fine di garantire al singolo l’esercizio del diritto stesso, perché l’esercizio di questo diritto produce pure effetti positivi per la collettività.

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Un quadro del pittore svizzero Albert Anker intitolato “Da Anker a Zünd, l’arte nel giovane Stato federale 1848 – 1900” (Wikipedia)

Il diritto all’istruzione dopo l’Unità d’Italia

La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, entrata in vigore nel 1793, non era destinata a durare a lungo. Fu sostituita infatti, come abbiamo detto, due anni dopo – nel 1795 – da un altro testo costituzionale che, tra le altre cose, forse per spegnere il fuoco della Rivoluzione, soppresse la parte relativa al diritto all’istruzione del cittadino.

È opportuno però sottolineare che la soppressione della precitata norma non eliminò nell’opinione pubblica dominante la convinzione ormai assai diffusa, in base alla quale allo stato toccava il dovere di garantire il diritto all’istruzione. Le legislazioni della fase della restaurazione dopo il Congresso di Vienna ripresero pertanto questa impostazione ed assegnano alle strutture statali la funzione organizzativa dell’istruzione. Un esempio di quanto abbiamo appena affermato si trova nella produzione legislativa asburgica.

Per portare la nostra attenzione sull’Italia, possiamo dire che, appena dopo l’unificazione del 1861, si sviluppò sull’argomento un dibattito culturale molto intenso. Fu questo il periodo, infatti, in cui si cercò di dare un esplicitazione più concreta al principio ormai universalmente accettato, che vedeva lo Stato come soggetto al quale competeva l’onere di garantire il diritto all’istruzione dei propri cittadini.

Lotta all’analfabetismo

Il primo contenuto da inserire nel generico e formale diritto all’istruzione fu l’eliminazione dell’analfabetismo. Questo fenomeno era all’epoca dell’Unità d’Italia allarmante, in quanto colpiva il 75% dell’intera popolazione nazionale. A questo dato negativo si doveva aggiungere un altro dato, non certamente positivo: solo l’8,9 per mille della popolazione in età tra gli undici e i diciotto anni riceveva un’istruzione post-elementare.

Il problema dell’eliminazione dell’analfabetismo assunse, dunque, connotati di assoluta priorità, anche perché riguardava in modo particolare le famiglie meno abbienti del nuovo Stato, le quali, avendo bisogno di molte braccia per la sopravvivenza, anzi di tutte le braccia della famiglia, sacrificavano alle necessità del presente anche il futuro dei figli, che ovviamente, invece di essere avviati agli studi, venivano utilizzati per il lavoro.

Sulla nuova realtà italiana nel primo decennio dopo l’Unità d’Italia trovò applicazione la legge Casati, una legge sabauda degli anni cinquanta del XIX secolo, che venne estesa al nuovo Stato. Un qualche risultato positivo, per quanto riguarda l’analfabetismo, fu raggiunto. Questainiziativa inoltre permise la diffusione di una visione tipica dell’impostazione dei Savoia per quanto riguardava la scuola: da una parte venne rafforzato, a livello centrale, il ruolo di un potente apparato ministeriale e dall’altra vennero poste le basi della formazione della classe dirigente dello Stato, grazie all’istruzione classica ed universitaria, che fu rafforzata e finanziariamente potenziata. Il punto debole della riforma scolastica del neonato Stato unitario però fu quello di affidare, per quanto riguardava l’istruzione elementare, la competenza, con i relativi oneri economici, ai Comuni, con grossi e facilmente immaginabili pesi per gli enti locali.

L’obbligo scolastico

Nei decenni successivi all’Unità si affrontò anche la questione dell’obbligo scolastico, altro tassello per dare un ulteriore contento al generico diritto all’istruzione, un contenuto decisivo per l’eliminazione dell’analfabetismo.

Nel 1870, quando ministro dell’istruzione era Antonio Scialoja, venne preso in esame il tema dell’obbligo scolastico. Su questa materia fu predisposto un disegno di legge, per quale Cesare Correnti ricevette l’incarico di relatore. Il Parlamento però non lo approvò. Probabilmente sul voto negativo pesò una valutazione politica trasversale: la destra temeva che, spingendo, sia pure con la forza di una legge, i figli dei contadini – e l’Italia era una realtà contadina – a studiare, questi sarebbero diventati assai colti e, di conseguenza, avrebbero creato una competizione sociale eccessiva nei confronti dei figli dei proprietari terrieri che, rispetto ai primi, rappresentavano una netta minoranza. Anche la sinistra però votò contro perché, nella sostanza, considerava troppo costoso il progetto.

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Prof. Franco Peretti
Esperto di metodologie formative

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Franco Peretti

Professore ed esperto di diritto europeo

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