Dopo aver fatto, seguendo il contenuto del Rapporto Bianchi, una serie di considerazioni sulla scuola da un punto di vista generale, con particolare riferimento sia alle strutture fisiche sia agli operatori, mi sembra opportuno dedicare qualche riflessione sullo studente, perché è il beneficiario dell’attività educativa ed è – e va sempre tenuto in evidenza quest’aspetto – il titolare del diritto all’apprendimento.
A questo proposito si pongono due quesiti e, di conseguenza, prima di passare a trattare argomenti specifici, dobbiamo dare qualche risposta.
Il primo quesito: qual è il significato dell’espressione “diritto all’apprendimento”? Con questa terminologia si intende sancire che ad ogni individuo deve essere garantita la sua preparazione, seguendo un percorso che sia rispondente alle sue personali capacità. Per ogni persona deve essere quindi costruito un progetto educativo che tenga conto delle sue inclinazioni personali.
Direi che il diritto all’apprendimento rappresenta una fase evoluta del diritto allo studio, che indica semplicemente un vago diritto senza specifico contenuto. Dopo che la legislazione, in ossequio non solo ai dettami formali, ma anche allo spirito sostanziale della Costituzione, ha introdotto il concetto di scuola inclusiva, il diritto all’apprendimento ha superato il diritto allo studio e ha dato all’attività educativa un nuovo ed importante significato.
Per inciso, a questo proposito vorrei sottolineare che la scuola inclusiva non comporta costruzione di programmi ridotti, come spesso ancora oggi accade. Questo tipo di scuola, invece, comporta il mantenimento dei programmi anche per allievi con qualche difficoltà ma, nello stesso tempo, vuole imporre percorsi diversi, ovviamente da costruire per questi allievi con un fine preciso: permettere a loro di raggiungere gli stessi traguardi previsti per gli altri.
Il secondo quesito, invece, può essere formulato in questi termini: a quale età deve o può iniziare il processo educativo della persona? Nel Novecento, quindi nel secolo scorso, a questo tipo di domanda è stata data una risposta molto interessante, destinata a produrre conseguenze che, ad oggi, non hanno trovato sempre la dovuta attuazione.
La moderna dottrina pedagogica ha ormai affermato, con consolidati studi, che già nel grembo materno il feto può iniziare, anzi inizia, la sua attività educativa grazie, quando c’è, anche al contributo puntuale della madre. Dal momento della nascita l’azione educativa deve svolgersi anche con la collaborazione di educatori con specifiche competenze.
Al quesito posto si può allora tranquillamente rispondere: dal primo vagito la persona può, anzi deve, essere inserita in un percorso educativo. Di conseguenza tutte le strutture che offrono servizi socio-assistenziali all’infanzia hanno il compito di garantire un’attività in questo ambito. Come si vede, questa impostazione produce un convinto cambiamento di mentalità e assegna a chi si occupa di infanzia nuove competenze.
Faccio un esempio per rendere più evidente il concetto: fino a qualche tempo fa l’asilo nido era considerato solo ed esclusivamente struttura adatta a risolvere i problemi della madre lavoratrice. Era pertanto un luogo che garantiva l’accoglienza ai piccoli per permettere alle madri di svolgere la propria attività professionale. Una istituzione, quindi, più a favore delle donne che dei bambini. Oggi, invece, sono cambiati i parametri di impostazione. L’asilo nido è una istituzione educativa realizzata per garantire il diritto all’apprendimento degli utenti, che, in questo modo, vengono inseriti in un processo educativo. Non più parcheggio ma scuola.
Rinviando a prossimi scritti le riflessioni sulle varie forme educative che si pongono nei vari momenti della crescita, affronto in questa sede alcuni aspetti dell’educazione dell’infanzia, incominciando a tratteggiarne le peculiarità.
In base alla nostra legislazione, devono essere intanto garantiti alle bambine e ai bambini dalla nascita fino a sei anni “pari opportunità per sviluppare potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento, in un adeguato contesto affettivo, cognitivo e ludico” (art.1 del decreto legislativo 65/2017).L’articolo citato è abbastanza chiaro e, nello stesso tempo, introduce una sottolineatura che non deve essere sottovalutata, in base ad un fondamentale principio di uguaglianza: a tutti devono essere offerte le stesse opportunità di educazione fin dalla nascita. Questo comporta che le varie istituzioni dello stato, in base al loro grado di competenza, devono contribuire per offrire ad ogni persona analoghe occasioni di educazione.
Tenendo presente l’età delle bambine e dei bambini, l’ordinamento italiano prevede un sistema integrato do educazione e istruzione articolato in due settori ben definiti: i servizi per l’infanzia (utenza 0 – 3 anni) e le scuole per l’infanzia (3 – 6 anni)
Va rilevato che i dati statistici sia dei servizi educativi sia delle scuole dell’infanzia mettono in evidenza una presenza a livello nazionale con una percentuale più bassa di quella europea. Non solo. Anche a livello nazionale si registrano squilibri, con percentuali più basse a livello meridionale. Va però aggiunto che le scuole dell’infanzia hanno presenze più capillari sia al nord che al sud.
In termini generali si deve ribadire che è necessario aumentare la consapevolezza dell’importanza sia dei servizi educativi (attività che riguardano le bambine e i bambini da zero a tre anni) sia delle scuole dell’infanzia (3-6 anni), perché ancora oggi non è ben radicata l’idea che l’utilizzo di queste strutture rappresenta un diritto del bambino, il cui rispetto deve essere sempre garantito. Con una sottolineatura comunque in più: all’attuazione di questo diritto del bambino devono concorrere non solo le istituzioni pubbliche ma la società nelle sue diverse articolazioni (imprese terzo settore).
Un’idea innovativa, che per molti aspetti può servire a creare un’organizzazione più razionale ed efficiente, viene dal decreto lgs 65/2017. Questa legge, riprendendo il contenuto della legge 107/2014, propone la creazione dei poli formativi, che “accolgono in un unico plesso o in edifici vicini più strutture di educazione ed istruzione per bambini fino a sei anni di età nel quadro di uno stesso percorso educativo”.
Aggiunge sempre il precisato testo legislativo (art. 3): “Si caratterizzano quali laboratori permanenti di ricerca, innovazione, partecipazione e apertura al territorio, anche al fine di favorire la massima diversificazione per il migliore utilizzo delle risorse, condividendo servizi generali, spazi collettivi e risorse professionali”. Da questa articolata descrizione si ricava che il polo educativo è anche uno spazio culturale, architettonico, pedagogico, didattico, organizzativo, professionale e sociale.
Al momento le proposte contenute nei provvedimenti legislativi non hanno trovato ancora completa attuazione. Le difficoltà di questi ultimi mesi sono note e offrono una giustificazione rispetto alla mancata attuazione.
Credo però, anche alla luce del contenuto del Rapporto Bianchi, sia giusto realizzare almeno sei punti:
Prof. Franco Peretti
Esperto di metodologie formative