In un precedente articolo sostenevo la necessità di definire la presenza del pedagogista all’interno della scuola perché la sua presenza è molto utile al fine di costruire percorsi didattici efficaci e validi. Ho ricevuto molte osservazioni positive: tutti coloro che mi hanno scritto o contattato hanno condiviso questa precisa mia tesi: all’interno della scuola è indispensabile la collaborazione del pedagogista. Non solo. Molti hanno anche ribadito l’opportunità che la figura del pedagogista sia ben definita e appartenga ad un ordine, in modo che la competenza sia, per diversi aspetti, certificata e tutelata.
In questo scritto mi propongo di ribadire l’importanza del pedagogista all’interno delle istituzioni scolastiche e incomincio a tratteggiare una serie di elementi utili a capire l’importanza della creazione del relativo ordine, che deve essere impostato con legge dello stato, secondo la procedura prevista per la nascita di un ordine.
La legislazione italiana, in base alle normative costituzionali, ha sancito, con una serie di principi, che la scuola deve essere inclusiva. L’aggettivo non deve trarre in inganno perché, in diverse circostanze, a questo termine è stato dato un significato, che non è assolutamente quello voluto dal legislatore, il quale, quando ha parlato di “scuola inclusiva”, voleva fare riferimento ad un’attività, quella scolastica per intenderci, che permettesse a tutti di raggiungere gli stessi obiettivi, magari con strade e, quindi, percorsi diversi.
Nella prassi scolastica però, in diverse realtà, il termine “inclusivo” è diventato sinonimo di “riduttivo”. È capitato, e forse ancora capita, che in qualche scuola, di fronte a studenti che presentano difficoltà nell’apprendimento, il collegio docenti ha deliberato per questi allievi un percorso ridotto per quanto riguarda i programmi, giustificando i tagli con la necessità di garantire loro l’inclusione. Questa soluzione è sbagliata e deve essere respinta con viva forza.
I programmi che garantiscono l’inclusione non sono quelli che prevedono tagli di argomenti per tarare il lavoro didattico sulle dimensioni degli allievi in difficoltà. I programmi inclusivi sono e devono essere quelli che prevedono percorsi di apprendimento diversi ma, nello stesso tempo, gli obiettivi finali da raggiungere devono essere uguali.
Non deve sfuggire infatti a nessuno che tagliare parte dei programmi non significa “includere” ma “escludere”. Il programma ridotto garantisce all’allievo in difficoltà di non essere posto in condizioni deboli solo nella scuola, ma non nella vita perché, avendo appreso meno, dovrà sopportarne le conseguenze, sempre. Del resto sarebbe opportuno a questo proposito una rilettura di un’opera molto significativa, “Lettera ad una professoressa” di don Lorenzo Milani.
Dalle poche considerazioni fatte emerge un dato specifico: nella scuola inclusiva, che tra l’altro deve sancire non solo il generico diritto allo studio, ma il diritto all’apprendimento, attuando quest’ultimo con percorsi mirati ai singoli allievi, devono essere presenti le competenze necessarie per realizzare questo progetto educativo.
Esaminando la situazione attuale vanno quindi fatte le verifiche necessarie per vedere se la scuola è attrezzata per offrire l’inclusione. Credo che a questo punto emerga, in tutta la sua importanza, un problema, riferito alla preparazione degli insegnanti. Se, infatti, i docenti sono in grado di offrire tutta la loro competenza per quanto riguarda i contenuti del sapere da trasmettere, possono probabilmente avere qualche difficoltà nella scelta delle metodologie da usare con i discenti.
Tra l’altro – ed è opportuno ribadire questo concetto – non sono imputabili agli insegnanti le lacune da un punto di vista pedagogico e metodologico. Nella stragrande maggioranza dei casi il loro curriculum di studi non prevede una preparazione in questo ambito. C’è di più: anche le verifiche per l’ammissione all’insegnamento vertono, in modo particolare, sui contenuti del sapere da trasmettere piuttosto che sulla metodologia da usare per trasmetterli. In altra circostanza ho citato anche le prove di concorso ed ho dimostrato quanto sia fondata questa mia tesi.
Fatta dunque questa premessa, che ritengo fondamentalmente, è necessario trovare una soluzione al problema. Questa soluzione penso che si possa impostare introducendo nell’organico delle scuole una figura specifica, con tutti gli strumenti indispensabili per affrontare in termini scientifici questa lacuna: il pedagogista che, essendo laureato in pedagogia o in scienza dell’educazione con titolo quadriennale o quinquennale, può essere individuato come “lo specialista dell’educazione” ed “esperto dei processi formativi”.
Come si è sinteticamente affermato, con la presenza nella scuola di questa figura professionale viene ad eliminarsi una lacuna che l’attuale sistema scolastico non ha ancora eliminato. Neppure i corsi di aggiornamento dei docenti e dei dirigenti hanno saputo affrontare in modo organico questa situazione e, poiché non è sufficiente una legislazione che sancisce determinati, sia pur nobili, obiettivi – come certamente nobile obiettivo è la scuola inclusiva – devono essere introdotte soluzioni che possano contribuire ad eliminare gli inconvenienti. La presenza all’interno della scuola in pianta stabile del pedagogista può, con una accettabile sicurezza, contribuire a rendere concreto il diritto all’apprendimento che, come abbiamo prima visto, è una prerogativa non astratta e generale come il diritto allo studio, ma è una prerogativa concreta che spetta al singolo studente, in base alle sue esigenze specifiche.
Al fine di evitare soluzioni approssimative, mi sembra opportuna un’ulteriore precisazione. Sovente, infatti, quando si parla di professioni si tende all’approssimazione. Per essere concreti nel definire la figura di un professionista vengono usati termini spesso vaghi che dicono tutto e niente.
Trattandosi, per quanto riguarda il pedagogista, di un’attività professionale molto delicata, che va ad incidere sulla persona e sulla sua cultura e, quindi, sulla sua dimensione sociale, mi sembra opportuno che ci sia un passaggio legislativo, idoneo a garantire una competenza sancita per legge.
Del resto esistono, in ambiti analoghi, esempi significativi. Ho presente, per citare un’analogia, il riconoscimento legale dell’attività dello psicologo, per restare in un ambito vicino al pedagogico. Dalle notizie in mio possesso qualcosa si sta muovendo in queste settimane. Pare, infatti, che ci sia, da parte di qualche parlamentare, l’intenzione di presentare un disegno di legge dal titolo “Ordinamento della professione di pedagogista e istituzione del relativo albo professionale”. Inutile dire che, da un punto di vista della ristrutturazione scolastica, questa iniziativa è da considerarsi lodevole.
Prof. Franco Peretti
Esperto di metodologie formative