In un recente intervento, all’interno del Salone Internazionale del Libro di Torino, durante un convegno di studio organizzato lunedì 18 ottobre nella sala Argento del Lingotto da una giovane casa editrice, la Echos, alla presenza di un attento pubblico formato da docenti e studentesse e studenti – che ringrazio per la loro partecipazione e per il loro contributo nel dibattito – ho voluto affrontare il tema della scuola dopo il Coronavirus e dopo l’avvio del PNRR.
Ho riproposto un argomento, tra l’altro già accennato anche dalle colonne di questo giornale, che in questi ultimi mesi mi ha particolarmente interessato e che sta molto a cuore anche al ministro dell’istruzione, Patrizio Bianchi: quello del patto educativo, ovvero il patto che deve legare tra di loro vari soggetti, a partire dalla famiglia per arrivare all’istituzione scolastica, coinvolgendo in questo percorso tutti i soggetti che su un determinato territorio si occupano di interventi nel sociale.
Mi sembra allora opportuno riprendere la riflessione fatta durante il convegno, anche perché ho notato che sull’argomento esiste un grande interesse ma, nello stesso tempo, sono fino ad oggi mancate le circostanze per rendere concrete certe linee operative, che possono diventare, tra l’altro, realtà senza richiedere grandi investimenti.
Il punto di partenza, che non deve mai essere sottovalutato, anzi deve essere preso nella giusta considerazione e dimensione, è quello dell’autonomia dei singoli istituti scolastici. Questo concetto a mio avviso non è stato colto nella giusta portata.
La legge, che ha introdotto questa prerogativa, ha un obiettivo ambizioso, quello di superare una visione della scuola basata su un’impostazione verticistica – al Ministero il compito di dare direttiva da eseguire, alle strutture territoriali il compito di attuare quanto previsto e programmato a livello centrale – per rendere possibile un’attività didattica più rispondere alle esigenze delle aree nelle quali i singoli istituti sono collocati.
Quest’impostazione non è cosa da poco, perché gli operatori scolastici acquistano la possibilità di scegliere i contenuti dei vari programmi. A questo proposito, sento anche il dovere di dire che, mentre in diverse realtà questa linea legislativa è stata seguita in modo puntuale con risultati veramente di eccellenza, in altre realtà si riscontra la necessità di provvedere a un cambio di rotta per trovare i percorsi adatti, al fine di rendere effettiva l’autonomia prevista ad approvata dal legislatore.
La scuola ovviamente non può da sola operare per realizzare in modo efficace l’autonomia, perché autonomia non significa separazione verticale, vale a dire dal ministero, ed orizzontale, quindi dal contesto nel quale l’istituzione si trova inserita. Autonomia significa sì libertà di scelta, ma comporta, al fine di un’azione efficace, un collegamento con altre strutture, che hanno fini ed interessi complementari.
Tenendo sempre presente che – anche se non l’abbiamo finora mai detto, anche perché l’abbiamo implicitamente considerato – il destinatario principale dell’attività educativa è la studentessa o lo studente che frequenta un corso.
Quando è stato introdotto l’istituto dell’autonomia, il Parlamento ha riconosciuto un potere discrezionale ai vari istituti, potere però che deve servire per costruire un percorso didattico efficace per preparare, da un punto di vista professionale, i beneficiari dell’attività. Mentre in precedenza questa attività era, in sostanza, l’applicazione nella realtà concreta delle linee ministeriali, ora i contenuti di questa attività possono essere individuati dai singoli istituti e, se vogliamo, dai singoli collegi docenti, che possono agire liberamente all’interno degli ambiti delimitati dal Ministero.
Mi sembra ovvio che al Ministero sia lasciato il compito di mettere le cornici all’interno delle quali possa essere esercitata l’autonomia, perché i risultati finali ai quali devono tendere i singoli soggetti, cioè i singoli istituti, devono essere omogenei.
Per garantire risultati positivi nell’applicazione dell’autonomia, la scuola deve cogliere gli aspetti peculiari del territorio nel quale opera o nel settore nel quale dovranno operare le studentesse e gli studenti, che finiranno i corsi. Ho detto territorio o settore perché per territorio intendo l’area nella quale si trova la scuola e si trovano i suoi frequentanti, per settore invece faccio intendo un comparto dell’attività industriale, che non necessariamente è legato ad uno specifico territorio.
Del resto con attività concrete progettate nel modo appena richiamato, agli allievi resterà il metodo usato, che certamente come complessi di principi potrà servire in altri campi. A nessuno sfugge che per fare bene una ricerca è necessario possedere un metodo.
Calibrare gli interventi formativi rappresenta poi una tipica azione che è collegata ovviamente all’autonomia. Se non ci fosse la più volte richiamata autonomia, non sarebbe possibile questa importante flessibilità. È chiaro che diventa più semplice tutto – eliminando tra l’altro eventuali errori, a volte anche gravi – se la scuola sottoscrive patti educativi con i vari soggetti, che hanno le potenzialità per potenziare la sua missione educativa.
I patti educativi rappresentano una vera occasione per legare la scuola alle realtà territoriali e, nello stesso tempo, garantiscono alla stessa un collegamento tra la preparazione delle studentesse e degli studenti e le richieste professionali che vengono dal mondo delle imprese. Vari sono i soggetti che possono – direi devono – essere coinvolti nella sottoscrizione di questi documenti.
Ritengo opportuno a questo proposito fare un breve richiamo sui protagonisti che hanno significativa importanza per dare efficacia all’azione d’istruzione della scuola. Innanzitutto la famiglia, che da diverso tempo è, sotto tutti i punti di vista, un soggetto chiamato a svolgere una funzione importante, anzi fondamentale, in questo campo. È da parecchio che è finito il tempo in cui la famiglia era portata, per una particolare visione sociale, a delegare alla scuola la funzione educativa.
Oggi si ritiene giustamente che alla scuola competa nel processo educativo, in modo specifico, il compito di garantire l’istruzione che, ovviamente, è parte importante dell’educazione, ma non copre tutto il campo dell’educazione stessa. Del resto incomincia ad essere convinzione diffusa, quasi ovvia, che proprio all’interno della famiglia si pongano le basi dell’educazione, a partire dal momento della nascita della persona, anzi dal momento del suo concepimento.
Una seconda istituzione che può intervenire nel patto educativo è l’ente locale, il comune, con le sue strutture, è in grado di offrire un grosso apporto per rendere più efficace il patto educativo e, di conseguenza, l’istruzione da somministrare. L’Amministrazione comunale può infatti mettere a disposizione gli edifici necessari. Non solo. Può facilitare i rapporti tra scuola ed altri soggetti del territorio.
A volte la scuola, per raggiungere ipotetici utili interlocutori, deve compiere una serie di passaggi che rendono lunghi i tempi di attuazione dei contatti, tempi lunghi che, molto non ci sono per un comune. Un sindaco infatti, o un assessore, ha un potere, per ovvi e comprensibili motivi, più forte di una scuola e può pertanto arrivare a stabilire importanti contatti.
Accanto a famiglia e scuola vedo come soggetti significativi da coinvolgere nel patto educativo anche le parrocchie, che molto spesso possono mettere a disposizione locali ed immobili. Non escluderei neppure le associazioni culturali.
Un posto importante e significativo, infine, è da riservare alle imprese che in molti casi, in modo particolare nelle scuole superiori, possono portare un contributo per la predisposizione dei programmi didattici e possono portare, con gli stage e i progetti di alternanza scuola-lavoro, un contributo concreto nella realizzazione di percorsi di istruzione che sappiamo essere un segmento fondamentale del percorso educativo.
Prof. Franco Peretti
Esperto di metodologie formative