L’Ocse ha stimato che il Pil in Italia crescerà dello 0,4% nel 2020 e dello 0,5% nel 2021 (nel 2019 la crescita è stata dello 0,2%). Questa persistenza di modeste variazioni del Pil sta a indicare che l’economia italiana è stagnante. Se l’economia non cresce vuol dire che la produzione (il Pil) non aumenta. Se la produzione di beni e servizi non aumenta vuol dire che non c’è necessità di soddisfare consumi maggiori e quindi maggiori bisogni.
Sempre secondo l’Ocse il tasso di disoccupazione in Italia nel 2019 è stato del 10%. Il che vuol dire che in Italia ci sono 2,5 milioni di disoccupati. Ci sarebbero da soddisfare i bisogni di 2,5 milioni di persone che, invece, non vengono soddisfatti. Questo è in disaccordo con quanto appena detto prima, e cioè che non c’è necessità di soddisfare maggiori bisogni.
L’Ocse sottolinea che “con la riduzione delle incertezze legate alla politica interna, le condizioni di finanziamento diverranno più agevoli e gli incentivi fiscali dovrebbero sostenere gli investimenti“.
Ma sarà proprio così? Davvero in assenza di incertezze politiche e con finanziamenti più agevoli e incentivi fiscali le imprese investiranno? Perché mai le imprese dovrebbero investire se non hanno prospettive di vendere i loro prodotti perché non c’è chi li consuma? L’attenzione si sposta dunque sui consumi.
Il Governo ha introdotto con la legge di bilancio 2020 (Art. 5 “Fondo per la riduzione del carico fiscale sui lavoratori dipendenti”) il taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori dipendenti che si traduce in una minore tassazione e quindi in un aumento del potere d’acquisto dei salari e quindi in un possibile aumento della spesa per consumi.
Davvero le famiglie destineranno una quota maggiore di reddito ai consumi? Non saranno piuttosto propense a destinarla al risparmio, viste le incertezze lavorative derivanti da fusioni aziendali, cambi di proprietà, delocalizzazioni, perdita di potere contrattuale? È ragionevole ipotizzare, invece, che i consumi potranno essere stimolati dai 2,5 milioni di disoccupati.
Il problema da risolvere è dunque il seguente: come dare lavoro a 2,5 milioni di disoccupati in assenza di investimenti da parte delle imprese e dello Stato.
Se non è possibile accrescere l’investimento non vi è alcun modo di assicurare un livello più elevato di occupazione se non accrescendo il consumo. Il consumo maggiore può provenire solo da chi consuma poco, e cioè dai disoccupati. In presenza di un’economia stagnante i posti di lavoro si trovano solo se qualcuno li libera. In altre parole, i nuovi lavoratori potranno trovare occupazione se altri lavoratori potranno andare in pensione.
Ma non basta. Man mano che le tecnologie digitali avanzano, espandendosi a un ritmo sempre più veloce, l’occupazione tende a rallentare. Perciò, per poter dare lavoro a 2,5 milioni di disoccupati occorrerà superare due ostacoli: il freno alle pensioni e l’accelerazione delle tecnologie digitali. Individuati gli ostacoli, trovati i rimedi: accelerazione delle pensioni (Quota 100 con minimo 20 anni di contribuzione e senza vincolo di età) e freno alle tecnologie digitali (“digital tax”).
Trovati i rimedi, ottenere le risorse: recupero dall’evasione fiscale (tramite la moneta digitale di Stato sulla quale fondare una “nuova economia del lavoro”) e versamenti di “contributi digitali” da parte delle macchine automatiche produttrici di “reddito digitale” (estensione dell’attuale imposta sui servizi digitali a tutte le piattaforme di disintermediazione digitale, comprese le macchine automatiche, i robot, gli automi basati sull’intelligenza artificiale).
Claudio Maria Perfetto