C’è una parola che ancora nessuno ha pronunciato: depressione. Si parla spesso di recessione ma mai di depressione (non per ora, perlomeno). La differenza tra recessione e depressione l’ha espressa efficacemente il presidente americano Harry Truman: “È recessione quando il tuo vicino perde il lavoro; è depressione quando lo perdi tu”.
Tecnicamente parlando, si ha recessione quando si registra per due trimestri consecutivi (sei mesi) una crescita negativa (cioè il Pil reale diminuisce, in quanto vi è minore produzione di auto, vestiti, spettacoli, pranzi al ristorante). Si parla invece di depressione quando per un periodo prolungato la disoccupazione è insolitamente alta e gli impianti funzionano a un livello assai inferiore alla loro capacità.
A fine 2019 il tasso di disoccupazione era il 10% (circa 2 milioni e mezzo di disoccupati) mentre per fine 2020 si stima che salirà a 11,6% (più di 3 milioni di disoccupati). Per frenare la crescita della disoccupazione il governo ha imposto per legge il divieto di licenziare, utilizzando come camera di compensazione della disoccupazione la cassa integrazione (il divieto è in vigore dal 17 marzo e rimarrà – forse – fino a fine 2020).
Il blocco dei licenziamenti produce due effetti: da un lato i lavoratori dipendenti che hanno un contratto a tempo indeterminato (per lo più 50enni e 60enni) non vengono licenziati (ma vanno in cassa integrazione); dall’altro lato i lavoratori che hanno un contratto a tempo determinato (per lo più 30enni) perdono il lavoro (perché il loro contratto non viene rinnovato). Ciò a causa di minore produzione dovuta a minori consumi.
È stato dimostrato (matematicamente da Keynes) che il volume dell’occupazione dipende dalla quantità di beni e servizi prodotti dalle imprese, e che tale quantità dipende dalla domanda di consumi e dalla capacità di spesa delle famiglie. Per stimolare i consumi e la capacità di spesa delle famiglie il governo ha introdotto bonus e reddito di emergenza. Ma gli aiuti di Stato servono alle famiglie più per sostenere spese di prima necessità (per generi alimentari, bollette, affitti, medicine) che per incrementare consumi di altro genere.
I consumi da stimolare non sono quelli delle famiglie che hanno già un reddito, le quali, data l’incertezza dei tempi che corrono, hanno maturato una maggiore propensione al risparmio e quindi consumano di meno. I consumi da stimolare sono invece quelli che potrebbero essere indotti dai disoccupati, i quali hanno una elevata propensione al consumo. Occorre quindi dare lavoro ai disoccupati per stimolare “nuovi” consumi.
Per creare lavoro nelle condizioni di oggi non occorrono ricette economiche nuove, o nuove idee imprenditoriali: già Keynes ha fornito la ricetta economica quando vi è elevata disoccupazione, evidenziando la necessità di effettuare investimenti pubblici da parte dello Stato per sopperire all’insufficienza degli investimenti privati da parte delle imprese; e già nel secondo dopoguerra lo Stato italiano è intervenuto nella ricostruzione dell’Italia attraverso l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale).
Allora lo Stato procedette (per dirla con le parole della Treccani) “alla ristrutturazione tecnica ed economica delle aziende, raggruppandole in settori omogenei e affidandone il controllo, la programmazione e il relativo finanziamento a società capogruppo. Coinvolto nella ricostruzione industriale postbellica, intraprese in seguito interventi volti allo sviluppo economico delle regioni meridionali, al potenziamento della rete autostradale, del trasporto in genere e delle telecomunicazioni, al sostegno dell’occupazione”.
La pandemia ha avuto sull’economia un effetto paragonabile a quello della guerra: il post-Covid va dunque affrontato con la stessa logica del dopoguerra. In termini pratici ecco i provvedimenti che il governo dovrebbe attuare:
Claudio Maria Perfetto