Al tramonto del 3 giugno di sessant’anni fa tutto il mondo ha gli occhi puntati su piazza San Pietro e, in particolare, sul palazzo apostolico. All’interno di questo edificio si sta chiudendo la vita terrena di un uomo destinato ad entrare nella storia dell’umanità perché non solo ha portato una luce nuova all’interno della Chiesa, ma ha saputo far dialogare i potenti della terra inducendoli a superare insieme rischi di un conflitto mondiale e creando i presupposti della fine della guerra fredda.
Credo che in queste poche righe sta la sintesi di un pontificato, quello di Giovanni XXIII, che è riuscito a dare alla figura del pontefice una dimensione umana senza intaccare la dimensione che gli deriva dall’essere capo della comunità cattolica.
Vi è un momento che sintetizza questa ultima duplice peculiarità: la giornata di apertura del Concilio Vaticano II. In questo giorno, al mattino papa Roncalli tiene un solenne discorso nella chiesa di San Pietro, parlando ad un’assise composta da oltre 2500 vescovi (la più vasta che la storia fino ad oggi ricordi) per sottolineare l’importanza di un’assemblea, che è chiamata a ridisegnare il volto della Chiesa. È un discorso carico di aspettative ed è pronunciato con l’autorità, ma soprattutto l’autorevolezza, che gli deriva dall’essere il capo della comunità cattolica.
La sera, dopo lunghe ore cariche di impegni anche protocollari, per rispondere all’immensa folla presente in piazza San Pietro, improvvisamente – non è infatti previsto nessun suo intervento – si affaccia alla finestra del suo appartamento privato, saluta i fedeli e, parlando con le parole del cuore, mette in evidenza la sua umanità. Dopo aver fatto un cenno al cielo stellato, che sembra sorridere su tutti, pronuncia una frase che va dritta nell’intimo di chi lo ascolta, perché nella sostanza non è il papa che parla ma l’uomo che, pur essendo il pontefice della Chiesa universale, ha mantenuto i sentimenti tipici della persona sincera e sensibile.
L’espressione infatti, proprio perché carica di umanità, sarà ricordata nel tempo. Dice infatti Giovanni “Questa sera quando andate a casa, troverete i bambini, date loro una carezza e dite che è la carezza del Papa”. Nella descrizione di questa giornata c’è la sintesi della personalità di Giovanni XXIII. Angelo Giuseppe Roncalli per questi suoi atteggiamenti è stato definito – e per alcuni versi è passato così anche nella storia – il “papa buono”. L’aggettivo però può essere anche rispondente al vero, ma corre il rischio di essere limitativo.
Per tratteggiare qualche elemento utile a dare un giusto connotato al suo pontificato, ritengo utile qualche richiamo alla sua esperienza personale prima di essere eletto al soglio di Pietro. Innanzitutto merita un cenno l’ambiente dove nasce e passa la sua infanzia. È figlio di contadini e da quest’ambiente ricava la capacità di apprezzare la frugalità, di capire il valore delle risorse economiche e di cogliere l’importanza del tempo, perché la natura non fa salti e di conseguenza ogni cosa ha un suo sviluppo con una puntuale scansione temporale che non può essere né accelerata né ritardata.
Con questa sua inclinazione, sviluppatasi rafforzatasi in lui anche grazie alla famiglia, dopo aver frequentato il seminario di Bergamo e, una volta ordinato sacerdote, dopo un periodo breve ma intenso come segretario del suo vescovo diocesano, si trasferisce a Roma e, entrato nella diplomazia della Santa Sede, svolge il suo incarico in varie nunziature dell’Europa Orientale. È questo un periodo che gli permette di studiare, di capire e di interpretare non solo il modo di pensare degli uomini della chiesa orientale, ma di cogliere le dinamiche e le aspirazioni degli uomini di quei territori nel momento in cui stanno prima sperimentando gli anni della guerra e poi quelli di un regime assai ostile al mondo cattolico e alla chiesa di Roma.
Per il futuro papa è l’epoca in cui è chiamato a vivere e gestire significativi momenti di mediazione sia con le autorità civili locali sia con i responsabili di altre religioni presenti in questi luoghi. La sua esperienza quotidiana, portata avanti in queste circostanze, gli permetterà di capire l’importanza del dialogo, in quanto coglie nel dialogo il più efficace strumento per superare tutte le difficoltà.
Sono queste le stagioni del consolidamento della sua preparazione diplomatica, che sarà successivamente rafforzata e raffinata durante il suo incarico come nunzio apostolico a Parigi, dove avrà anche l’occasione di confrontarsi con Charles de Gaulle, personaggio assai spigoloso, in questo periodo capo del governo francese.
Da un esame attento della sua missione come rappresentante della sede apostolica in Francia si può dire che questi sono gli anni della sua formazione globale come diplomatico. Gli manca, per completare la sua figura come eminente personaggio del Vaticano e quindi come papabile, un’esperienza pastorale. Per certi versi, soprattutto per chi crede che può essere definita provvidenziale, Pio XII ad un certo punto gli interrompe la carriera diplomatica e lo nomina patriarca di Venezia e lo crea cardinale.
Nel capoluogo veneto Roncalli svolge la sua attività pastorale non solo con quella saggezza che aveva acquisito nella sua esperienza diplomatica, ma con quella sensibilità innata che lo porta sempre a guardare prima all’intenzione delle persone e poi ai loro interessi. In questo periodo si rafforza in lui la necessità di distinguere, ad esempio, tra errore ed errante. Distinzione questa che gli provocherà molte critiche ma che concretamente a lui apriranno molte porte utili al dialogo.
Con tutto questo bagaglio di situazioni personali, che in lui hanno generato una serie di convincimenti, nell’ottobre del 1958 viene eletto papa e dopo pochi mesi, nel gennaio del 1959, lancia l’idea di convocare un concilio ecumenico. Qualcuno sostiene che si tratta di un progetto improvvisato, frutto di una folgorazione non del tutto opportuna.
Sono convinto invece del contrario e sono altresì convinto che Roncalli sale al soglio pontificio con il sostegno di alcuni grandi elettori, che nelle ore precedenti il conclave, dopo aver discusso con lui su questo tema, gli garantiscono totale adesione al piano.
Sono molti gli elementi che possono essere presi in considerazione per giustificare questa mia tesi. Papa Giovanni XXIII, con la sua esperienza di diplomatico, ha avvertito in modo concreto, in diverse sedi anche lontane da Roma, l’esigenza di un più stretto contatto tra la sede di Pietro e il mondo cattolico, soprattutto quello della periferia. Ha avuto sovente occasione di constatare come non fosse sufficiente l’autorità del papa per stabilire le linee operative delle varie comunità di credenti.
Per essere ancora più esplicito posso dire che Roncalli ha compreso molto bene che non è sufficiente parlare ex cathedra per essere obbediti. Non solo. Il Prelato ha anche constatato che spesso gli insegnamenti papali finiscono per calarsi in ambiti pronti ad adeguarsi per spirito di obbedienza, anche se poco convinti della validità dei messaggi pontifici.
In secondo luogo Giovanni XXIII intuisce che vi è nel mondo cattolico un grande desiderio di novità e soprattutto dai più parti viene avanti la richiesta di un maggiore coinvolgimento del Popolo di Dio. Roncalli, prima di diventare papa, è vissuto nella Chiesa disegnata in modo puntuale nel catechismo di Pio X: da una parte c’è la chiesa docente e dall’altra c’è la chiesa discente. Al Papa e ai vescovi tocca il compito di insegnare e dare le linee operative, ai fedeli, sacerdoti e laici, il compito di imparare ed obbedire.
Questa visione della Chiesa, ormai poco accettata anche in conseguenza di assai numerosi approfondimenti dogmatici e pastorali, richiede una rivisitazione per dare un giusto ruolo al popolo di Dio che merita di essere rivalutato e considerato il vero protagonista della storia.
Proprio a questo proposito si impone anche un’ulteriore considerazione: il nuovo concilio, pur celebrandosi in Vaticano, non deve essere la continuazione e non deve avere nessun collegamento con il precedente, ossia con il Concilio Vaticano I voluto da Pio IX, celebrato a Roma, senza però arrivare alla conclusione, perché interrotto dall’arrivo dei bersaglieri del Regno di Italia, arrivati nella Città Eterna per porre fine allo Stato Pontificio. Considerare e impostare il nuovo concilio come se fosse continuazione e quindi la conclusione del precedente, significherebbe rendere i padri conciliari subordinati alle tesi dai loro predecessori. Giovanni XXIII vuole invece un’assise libera di ragionare e deliberare senza pesanti precedenti alle spalle, che potessero schiacciarli nei momenti delle loro decisioni.
Un richiamo merita anche la visione della Chiesa che ha Giovanni XXIII rispetto ai suoi predecessori. Fino a Pio XII la Chiesa viene considerata depositaria di verità assolute in tutti i campi, verità che devono necessariamente essere imposte. In altre parole la Chiesa di Roma era depositaria di una serie di principi da accettare in toto senza discussioni.
La Chiesa di Roma è anche depositaria, in campo sociale di un suo modello di stato – la società cristiana – per l’attuazione del quale tutti sono chiamati a lavorare, a lottare, ad offrire se necessario anche la propria vita. Poiché il modello è, secondo la teologia imperante in questi decenni, perfetto, non possono essere ammesse deroghe di nessun tipo. Del resto la storia della Chiesa è piena di pagine relative a queste lotte per la difesa del primato.
Giovanni XXIII, forte della sua esperienza acquisita nelle varie realtà dove ha esercitato il suo ministero ecclesiastico, matura, alla luce anche di una serie di riflessioni portate aventi da teologi sociologi e storici cattolici contemporanei, una visione diversa del ruolo della Chiesa e quindi del cattolicesimo.
In sintesi questa è la sua visione: la Chiesa, il popolo di Dio dunque, non è chiamato a costruire una comunità su principi dottrinali tratti rigidamente dal magistero e quindi sempre alternativi per la loro rigidità alle impostazioni di altre culture o di altre religioni. La visione cattolica deve essere considerata un insieme di elementi idonei a contribuire alla costruzione di un mondo che sia in grado di essere casa comune.
Oggi tutto questo corre il rischio di essere considerato ovvio, quasi banale. Se si considera invece che negli anni Cinquanta del Novecento, in Italia, nei confessionali delle chiese sono esposti in modo ben visibile cartelli che confermavano la scomunica per gli iscritti al partito comunista, il pensiero di Giovanni XXIII è da valutare senza ombra di dubbio rivoluzionario.
Giovanni è quindi il papa che porta una ventata di novità per fare uscire dalle secche una Chiesa che sta correndo il rischio di non essere al passo con i segni dei tempi che invece devono essere sempre ricercati, riconosciuti ed interpretati.
Di Giovanni XXIII due sono le encicliche ed entrambe sono una puntuale ed approfondita esplicitazione dei concetti espressi nei paragrafi precedenti. Non parlerò in questa sede in modo analitico dei loro contenuti. Qui mi limiterò a qualche cenno generale e ad una considerazione che è valida per entrambi i documenti. Incomincio da quest’ultima.
Entrambe le lettere sono indirizzate per la prima volta nella storia della Chiesa non solo ai vescovi ed ai credenti, ma sono destinate anche agli uomini di buona volontà. Particolare questo non secondario, perché destinato nella sostanza a diventare prassi. I suoi successori infatti, nei loro documenti, si rivolgeranno generalmente a tutti gli uomini. Si può dire quindi che con Giovanni XXIII incomincia a delinearsi quell’impostazione che troverà un modo concreto ed esplicito nell’espressione “Chiesa in uscita”, usata di frequente da papa Francesco durante il suo pontificato. Del resto se la Chiesa vuole, anzi deve dialogare, è chiamata a lasciare il chiuso delle sue sicurezze per confrontarsi con le proposte delle altre istituzioni e delle altre culture.
La prima enciclica di papa Roncalli è titolata “Mater et Magistra”, e viene pubblicata il 15 maggio 1961, esattamente settant’anni dopo la prima enciclica con contenuto sociale, la Rerum Novarum di Leone XIII. La lettera di Giovanni XXIII non solo richiama e riconferma tutti i temi del documento leonino, ma si sofferma con puntigliosa attenzione sulla società contemporanea e sulle sue caratteristiche innovative.
Mi sembra utile riprendere un aspetto importante, che per certi versi rappresenta la novità nell’enciclica: il ruolo dei laici. Giovanni XXIII affida ai laici cattolici il compito di instaurare rapporti e poi di gestirli con le altre componenti della società. Sui percorsi da seguire, sugli obiettivi da raggiungere è lasciata una responsabile autonomia a loro, che dovranno per certi versi anche essere comprensivi, in quanto non sempre è possibile ottenere tutto. Merita di essere rimarcata una sottolineatura lessicale.
Quando Giovanni XXIII parla della questione sociale tende a privilegiare l’espressione “pensiero sociale della Chiesa”, quasi a sottolineare che in campo sociale la chiesa non ha una dottrina, ma fa delle valutazioni di carattere morale e pastorale, senza puntare a trasformare queste valutazioni in dottrina. Sotto questo punto di vista Giovanni anticipa Paolo VI, che esporrà questa linea proprio nella Octagesima adveniens, del 1971.
L’altra enciclica di papa Roncalli porta come titolo Pacem in terris e viene pubblicata poche settimane prima della sua morte, l’11 aprile 1963. Questa seconda enciclica ebbe una diffusione straordinaria e fu accolta anche dai non credenti con molta attenzione e molto rispetto per due ordini di motivi.
Il primo: l’umanità in questi mesi corre il rischio, in conseguenza della nota vicenda dei missili russi a Cuba, di essere coinvolta in una nuova e devastante guerra mondiale.
Il secondo: proprio nel periodo in cui viene pubblicata la lettera giovannea, un po’ ovunque nel mondo, movimenti di carattere sociale si agitano per promuovere iniziative a favore della pace e di conseguenza un documento emanato da un’autorità morale come può essere il pontefice, viene quasi sempre richiamato nelle loro prese di posizione. Questa linea di condotta di Giovanni XXIII a favore della pace contiene anche un concetto che abbiamo richiamato in precedenza.
Poiché per costruire la pace è necessario stringere collaborazioni anche con soggetti o istituzioni che basano il loro credo religioso sui principi che rappresentano per il mondo cattolico sostanziali errori, papa Giovanni propone anche un rapporto operativo con questi soggetti o con queste istituzioni perché, quando si lavora per la pace o per altri obiettivi condivisibili, è necessario introdurre quella distinzione, citata pure in precedenza, tra errante ed errore.
Con questa distinzione, da un punto di vista intellettuale, non c’è nessuna rinuncia ai principi, sul piano operativo si possono costruire però impostare percorsi utili per la costruzione di una società migliore.
Il pontificato di Giovanni XXIII è sostanzialmente breve – meno di 5 anni – ma ha prodotto e continua a produrre effetti molto positivi nella vita della Chiesa.
Innanzitutto dona alla Chiesa cattolica un ruolo di protagonista nello scenario mondiale. Il pontificato, con Giovanni XXIII, riacquista una funzione importante in grado di contribuire alla costruzione e al mantenimento della pace nel mondo. Da un lato l’enciclica Pacem in terris, con l’attenzione cha che genera, dà prova di questa nuova posizione del papa nel contesto universale. A
ll’interno della Chiesa poi produce un vero scossone spirituale suscitando non solo un dibattito culturale ma facendo portare avanti anche progetti innovativi che sono in grado di permettere alla comunità cattolica di iniziare un rinnovamento che durerà per decenni e ancora oggi non se ne vede la conclusione.
Giovanni XXIII avverte infatti in modo molto preciso la necessità di aggiornamento dell’istituzione cattolica che nel momento in cui viene eletto al soglio di Pietro, è legata ad un’architettura piramidale che non è più adatta al mondo contemporaneo. All’interno del mondo cattolico esistono istanze che meritano di essere ascoltate.
In termini banali possiamo dire che il Popolo di Dio è non solo presente in territori molti diversi anche da un punto di vista della storia e delle tradizioni, ma è anche cresciuto da un punto di vista culturale e di conseguenza merita di essere ascoltato nella varietà delle sue caratteristiche.
Il Concilio dovrà quindi essere un momento essenziale per l’aggiornamento della Chiesa. Cogliere allora tutto questo e convocare un concilio è forse il segno di saggezza più significativo della storia della Chiesa del XX secolo.
Prof. Franco Peretti
Cultore di storia della Chiesa