Nell’arco di dieci anni avrebbero estorto circa 1,7 milioni di euro ad un imprenditore operante nel settore dell’estrazione e della lavorazione di pietra lavica a Paternò, nel Catanese. È quanto hanno scoperto i carabinieri di Catania, che hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti della moglie e due figli di un noto esponente del clan Santapaola-Ercolano, Giovanni Rapisarda, condannato all’ergastolo. L’accusa nei loro confronti è di estorsione aggravata dal metodo mafioso.
La misura in carcere è stata emessa dal Gip su richiesta della Dda etnea. Secondo l’accusa, a dare disposizioni alla sua famiglia dal carcere sarebbe stato Giovanni Rapisarda, 64 anni, conosciuto nell’ambiente criminale con il soprannome di ‘Sansuneddu‘, condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’imprenditore di Catania Giuseppe Scaringi nel 1993. Ora oltre al boss in carcere sono finiti anche la moglie, Santa Carmela Corso, di 61 anni, e i figli Valerio e Giuseppe Rapisarda, rispettivamente di 30 e 34 anni, arrestati in flagranza dai carabinieri dopo che avevano ritirato una ‘tangente’ da 2.000 euro dalla vittima dell’estorsione.
Le indagini erano state avviate dopo che militari dell’Arma della compagnia di Paternò avevano notato diverse e frequenti visite dei due fratelli Rapisarda nella sede di una ditta di Belpasso dove sono state installate delle telecamere nascoste. L’imprenditore dal 2012 avrebbe pagato ininterrottamente il pizzo versando complessivamente 1,7 milioni di euro tra contanti, assegni, cambiali e mezzi d’opera.
“La vittima – scrive in una nota la Procura di Catania – dopo l’acquisizione di un ramo dell’azienda già di proprietà di altri componenti della famiglia Rapisarda, pur avendo già consegnato 700.000 euro negli ultimi 10 anni per crediti illecitamente vantati di 1.000.000 di euro, riceveva un’ulteriore richiesta estorsiva di 700.000 euro, dilazionati in cinque anni con il pagamento di una somma tra i 1.500 e 3.000 euro settimanali o, in alternativa, la cessione della ditta“.
In una delle intercettazioni effettuate dai carabinieri il figlio maggiore, Giuseppe Rapisarda, spiega all’imprenditore che il motivo per cui doveva pagare il pizzo era perché la cava “era la nostra cosa” e che erano “dodici-tredici anni e dobbiamo chiudere sta partita” e ricordandogli che “mio padre il suo piacere è questo, perché qui era la cosa sua“.