Un mondo che si è ammalato è il protagonista del film “L’ultima ora“, presentato all’ultima Venezia fuori concorso, e che arriverà nelle sale cinematografiche il prossimo 4 luglio con Teodora. Un mondo, dunque, “del declino e degli addii”, così definito da uno dei giovani protagonisti del thriller psicologico e politico del regista Sebastien Marnier (Irréprochable). In risalto appare il lato oscuro di una generazione ammantata sia dallo spirito dei “Fridays for Future”, i seguaci ambientalisti della giovane attivista svedese Greta Thunberg, sia da derive elitarie e suicidarie. Il primo colpo di scena dopo pochi minuti dall’inizio del film: un professore di una scuola superiore apre lentamente la finestra della sua classe, gettandosi nel vuoto. La storia continua con un atletico supplente chiamato a sostituirlo, Pierre (Laurent Lafitte), il quale si rende conto che, tra i ragazzi che segue, sei alunni molto uniti anche da un progetto misterioso sono dotati di un’intelligenza superiore. Nell’insegnante prende forma una vera ossessione quando intuisce che il tragico destino del suo predecessore è legato ai sei anomali studenti dell’Upper class.
Tratto dal romanzo omonimo di Christophe Dufossé, pubblicato in Italia da Einaudi, “L’ultima ora” non si discosta molto dall’attualità, e, come dichiarato dal regista: «Avrei voluto fosse il mio primo film, ma sono felice di averlo girato solo molti anni più tardi, quando la situazione politica e ambientale in tutto il mondo, e in Francia in particolare, si è fatta ancora più preoccupante». In una realtà difficile «Credo – dice Marnier – che le nuove generazioni siano diventate più consapevoli del mondo in cui vivono e, come abbiamo capito mentre facevamo il casting del film a oltre centocinquanta ragazzi, anche più pessimistiche. Il tema centrale resta il fatto che gli adulti non sono quasi mai capaci di comprendere il mistero dell’adolescenza, malgrado siano stati tutti adolescenti a loro volta. So che i ragazzi sanno rendere inaccessibile il loro mondo, lo so anche perché io stesso ho vissuto esperienze molto dolorose a quell’età. Per rendere al meglio nel film questa incomunicabilità generazionale non ho fatto incontrare Laurent Lafitte con gli interpreti più giovani fino al primo giorno di riprese. Sapevo che questo avrebbe creato da entrambi i lati una mancanza di complicità e di fiducia, una tensione e un’elettricità naturali. Per contenere queste interazioni fuori dal set – conclude il regista –, Laurent si è addirittura rifiutato di pranzare con loro per due settimane».