In libreria da alcuni giorni si può trovare “Rinascere”, il libro, edito da Rizzoli, scritto da Manuel Bortuzzo. Sono 176 le pagine in cui il nuotatore triestino, nato nel 1999, racconta dell’anno in cui ha ricominciato a vincere. Giovane promessa del nuoto, Bortuzzo si allenava al Centro Federale di Ostia con campioni del calibro di Gabriele Detti e Gregorio Paltrinieri, fino a quando, il 2 febbraio 2019, non ha potuto continuare a farlo, vittima di una sparatoria che lo ha costretto sulla sedia a rotelle. Alla periferia di Roma, circa due ore dopo la mezzanotte, Bortuzzo viene, purtroppo, scambiato per un’altra persona, e colpito alla schiena da un proiettile. Si accascia a terra, mentre la sua fidanzata, Martina, si china su di lui, prima dell’arrivo dell’ambulanza, che lo porterà in ospedale, dove, operato, sarà fuori pericolo di vita. C’è un “ma” in questa storia, rappresentato dal dopo incidente: la sedia a rotelle.
Da promessa olimpionica, Manuel si ritrova a fare riabilitazione, e ad apparire su tutti i giornali e in televisione. Ciò che lo ha sempre contraddistinto è stato il suo viso sereno, nonostante l’accaduto, e il coraggio di non aver mai perso la speranza. Questo libro, però, racconta ciò che di Manuel non si è visto, come la sofferenza, lo sconforto, la rabbia, e tutta la forza che ha dovuto trovare dentro di sé, gli insegnamenti che ha saputo riconoscere anche in questa vicenda, e la determinazione. L’obiettivo gli è stato sempre ben presente: vivere al meglio la nuova condizione, lottando fino in fondo, con tutte le energie fisiche e mentali, per riprendersi quello che gli è stato tolto. Solo pochi giorni fa ha dichiarato che potrebbe tornare a camminare, magari tra dieci anni, il tempo che lui stesso si è dato, perché la lesione non è completa.
Sostenuto dalla Federazione Italiana Nuoto, e in primis da un padre da cui probabilmente ha ereditato la forza d’animo, Manuel, in un passo del libro Rinascere, scrive: “Sono uscito dall’ospedale dopo appena due settimane di ricovero. Un record, considerando che ero entrato in fin di vita, avevo subito due operazioni tutt’altro che banali e avevo perso l’uso della parte inferiore del corpo. Ma non per me: sono sempre stato abituato a dare il massimo e l’ho fatto anche in questa circostanza. D’altronde non ne potevo più di stare inchiodato a quel letto, di dipendere da qualcun altro in tutto e per tutto. Volevo riguadagnare il prima possibile la mia autonomia, o quanto meno quella che la mia nuova «posizione» mi avrebbe concesso, e l’unico modo per farlo era cominciare a poggiare le chiappe su una sedia a rotelle e imparare a conviverci. Il 18 febbraio sono stato quindi trasferito alla Fondazione Santa Lucia, dove sono rimasto fino al 5 maggio. Tre mesi in cui ho imparato di nuovo a vivere, ma in carrozzina. Già, perché in effetti era proprio come se fossi un neonato incapace di muoversi da solo, privo anche dei minimi requisiti di autosufficienza.
Non solo non riuscivo ad alzarmi, non ero nemmeno in grado di girarmi su un letto matrimoniale: la prima volta che mi hanno chiesto di fare questo esercizio e mi sono ritrovato lì disteso e immobile, con la fisioterapista che mi spronava e mi diceva: «Forza, Manuel, prova a metterti su un fianco», mi sono sentito veramente un uomo a metà. Mi veniva da piangere. Non era solo sconforto, c’era anche tanta rabbia. «Non posso credere di essermi davvero ridotto così» mi dicevo. «Non posso passare tutto il resto della mia vita in queste condizioni. Non ho nemmeno vent’anni, cazzo.» E così mi concentravo, mi impegnavo e cercavo con tutto me stesso di incanalare ogni briciolo di forza che avevo nel tentativo di muovere anche solo un muscolo e girarmi su un fianco, maledizione. Il percorso riabilitativo funziona a step. I primi giorni l’obiettivo era mettermi a sedere, visto che da quando ero stato operato ero sempre stato solo ed esclusivamente disteso. Sembra una cavolata, ma non lo è affatto: ho dovuto sudare sette camicie per riuscirci. Raggiunto questo traguardo, sono stato posizionato sulla carrozzina. Sì, è proprio così che è andata: sono stato prelevato con un aggeggio che si chiama sollevatore e depositato su questa sedia a rotelle dell’anteguerra, pesantissima, enorme, una specie di trattore di trentaquattro chili. Quella che ho adesso in confronto è una Ferrari, pesa appena otto chili. Ora sarebbe oggettivamente un problema logistico spostarsi con un carrarmato del genere, ma in quel momento non me ne fregava niente, volevo acquistare autonomia, a qualsiasi costo.
E così un martedì mattina sono arrivati gli infermieri con il famoso sollevatore e mi hanno depositato sulla carrozzina. Ci sono stato un paio d’ore, poi siccome era il giorno del clistere, sono tornati, mi hanno sollevato di nuovo e mi hanno rimesso a letto. Perché la prassi è questa: il giorno del clistere devi stare a letto, punto e basta. A me però non stava bene, per niente. Avevo appena intravisto un barlume di libertà, di autonomia, e secondo loro avrei dovuto rinunciarci dopo così poco tempo? E poi di pomeriggio sarebbero venuti a trovarmi i miei genitori e Martina, ci tenevo che mi vedessero finalmente seduto e non allettato com’ero ormai da troppo tempo. Volevo che potessero constatare con i loro occhi i miei progressi. Insomma, ho fatto un gran casino e alla fine sono riuscito a ottenere quello che volevo. Mi hanno rimesso a sedere, così quando sono arrivate le visite abbiamo fatto una gran festa. Eravamo tutti super felici, io per primo. Quest’episodio mi ha subito chiarito che il passo successivo era imparare a passare dal letto alla carrozzina da solo: in questo modo non avrei avuto più bisogno del sollevatore e sarei stato in grado di scegliere autonomamente quando e se mettermi disteso, conquistandomi la libertà di farlo a tutte le ore del giorno. Dipendere dagli infermieri e dal sollevatore infatti significava che quando alle 19.30 venivano a rimettermi a letto la mia giornata era finita: non che in ospedale si facessero le ore piccole, per carità, però volevo essere io a decidere quando andare a dormire”.
Simona Cocola