Una parte del dibattito politico in questo periodo si è concentrata sulla questione della patrimoniale. Un fantasma si è aggirato per la nostra patria italeuropea: era il fantasma dell’automatismo, secondo cui sarebbe giusta e lecita una cultura deforme secondo cui chi ha qualche immobile sparso per le città e le campagne deve essere considerato ricco a priori davanti al fisco. Sugli apriorismi di questo dannoso automatismo il principio della progressività delle imposte piange la sua effettività.
Chi ha vari immobili, non utilizzati né utilizzabili, non è scontato che da essi tragga un beneficio economico o che abbia le possibilità di investirci sopra o che riesca a venderli facilmente per liberarsene. È di tutta evidenza invece che chi ha vari immobili paghi già una bella somma al fisco, anche senza essere un ricco professionista o un facoltoso imprenditore.
L’uscita dal ‘900 ci ha insegnato ad essere politicamente pragmatici e trasversali nelle idee, senza diventare macroeconomicamente miopi. Le anime politiche che in questo momento sono a favore di una imposta patrimoniale, però, più che pragmaticamente impegnate nel contrasto delle nuove povertà dovute alle chiusure anti-Covid si riallacciano alle ideologie statocentriche del secolo scorso. Il discorso di politica tributaria sulla patrimoniale non può essere affrontato senza guardare in faccia il vero volto eterogeneo delle tante famiglie italiane. Rischieremmo altrimenti di decantare il pluralismo soltanto per alcuni diritti civili di categoria, senza considerare opportunamente l’altro volto dei diritti civili economici, quello di chi prova a campare e far campare, investendo, resistendo sul fragile e martoriato mercato di questi mesi.
Nel Sud del Paese, ma non solo, il fatto di avere diversi immobili non è indice di ricchezza senza se e senza ma, e ciò è dimostrabile anche a fronte del ben chiaro processo di mobilizzazione delle ricchezze negli ultimi sessant’anni. Chi detiene un patrimonio immobiliare effettivamente spento e non convogliabile nelle dinamiche delle compravendite immobiliari, per come queste si presentano periodo per periodo, ha un patrimonio che gli porta soltanto pesi fiscali, a cui in questo momento non sarebbe opportuno aggiungerne altri.
Da un lato si pretende di risollevare il Paese, dall’altro si priva di respiro chi dovrebbe investire per risollevarlo. L’eguaglianza nelle opportunità tra persone che partono da poteri di acquisto d’origine differenti non può realizzarsi senza considerare il concreto volto delle ricchezze, per come è strutturato il capitalismo della post-contemporaneità.
La soglia di cui si parla in questo momento per una eventuale patrimoniale all’italiana è una soglia che colpirebbe anche fasce delicate e instabili del Paese. L’automatismo con la sua aprioristica ascia impositiva statolatrizza il principio costituzionale della progressività delle imposte, che in uno Stato personologico non può essere figlio di ideologie d’etichetta illiberale. La progressività delle imposte nell’ingegneria costituzionale è da considerare quale valore che conferma la cura dello Stato verso le persone in carne ed ossa, e non la cura verso astratte categorie di ricchi e poveri, categorie che il ‘900 ha consegnato al nuovo millennio in corso come fluidificate ed in ricerca d’identità evolutive, in letteratura e prima ancora nella realtà.
La politica ha il compito di promuovere il più urgente di tutti i pluralismi: quello di una cultura lavorativa fatta di individui “self made men” e “self made women”, plurimi e diversi, che in modo complementare rendano viva la vita sociale ed economica italiana. Negli ultimi tempi la prospettiva diffusa è purtroppo quella di una vita in cui si procede ad occhi chiusi, tra ricette politiche e assistenzialismi anacronistici.
Gli uomini e le donne per affrontare le avversità socioeconomiche di questo tempo hanno bisogno di terreni liberi su cui coltivarsi da soli, senza essere obbligati a vivere negli schemi ciechi di una pressione fiscale che vada a colpire ciò che solo apparentemente è ricchezza, ma che in realtà è spesso solo un peso. La povertà è dietro l’angolo per tanti, è già un incubo per molti. La povertà va fronteggiata utilizzando le tante strutture che sono state costruite negli anni scorsi con i soldi degli italiani e che ancora giacciono inutilizzate nell’incuria e nell’abbandono. Mettendo in moto quelle strutture si potrebbe economizzare il tessuto sociale che aspetta risposte sul come continuare a vivere liberamente.
La sussidiarietà orizzontare, che ai sensi dell’art. 118, comma 4 della Costituzione impegna tutti gli enti pubblici territoriali della Repubblica a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività d’interesse generale, può prospettarsi quale via opportuna di progresso; non la statolatria astrattamente sociale, concretamente asociale. La patrimoniale improgressiva è apersonologica, quindi acostituzionale.
Una patrimoniale, durante i periodi più fiorenti per l’economia, potrebbe servire ove venisse indirizzata verso i grossi poteri finanziari capaci di far evaporare fiscalmente via dall’Italia ingenti patrimoni mobiliari. Pensare ad una patrimoniale che colpisca anche i medi, stando così le cose ai tempi del Covid, è un pensiero che contribuirebbe a staccare sempre di più lo Stato sociale dalla realtà effettiva, concreta, quotidiana. La realtà delle classi sociali di una volta, ora, è sempre più in magmatica evoluzione al di là degli schematismi stanchi di anacronistiche ricette fiscali.
La nostra civiltà dovrà affrontare il problema delle povertà, su più piani, e avrà il bisogno di ispirarsi anche a coordinate di pensiero vicine alle vocazioni socializzanti, che fungibilizzano le titolarità proprietarie dei beni in capo a più soggetti. Occorre tatto, però; occorrono le opportune condizioni politiche di coscienza, occorre un tessuto capitalistico maturo e solido a tal punto da poter convertire le solite produzioni in capitale d’innovazione da mettere a disposizione di ogni forma di competenza e di territorio, in società. Occorre occuparsi di povertà senza creare nuove disperazioni o irrazionalismi, avendo rispetto per le diverse fatiche quotidiane, impresarie, operaie, artigiane o ibride che esse siano.
Forse l’unica ricetta al momento opportuna è la sensibilità verso chi ha bisogno di progettare per crescere, da dipendente o da autonomo, senza inutili barricate negli umori del legiferare, senza riserve ‘mentali’ di Stato. Oltre ogni problematico ‘forse’, invece, l’unica strada da percorrere è l’incoraggiamento dei giovani con misure tangibili.
Si ascolti l’acculturata fame dei giovani di nessuno; si ascolti la necessità piangente di progresso di chi ha, davanti agli incalliti privilegi situazionali e professionali, soltanto la propria mente e il proprio corpo in società.
Luigi Trisolino