Come vi avevamo anticipato ieri nell’incipit dell’articolo titolato: “Proteste pro Navalny e condanna Derek Chauvin: segnali importanti, perché?” abbiamo cercato di confrontare due casi in cui sebbene si sia di fronte a contesti politici completamente differenti e a situazioni di per sé diverse, entrambi risultino accomunati dalla violenza dei ‘poteri forti’ nei confronti dei più deboli.
Oggi puntiamo l’attenzione sulla condanna inflitta all’agente Chauvin accusato di omicidio per la morte di George Floyd, cittadino afroamericano di colore, morto dopo essere stato immobilizzato con il ginocchio sul collo per oltre nove minuti, fino al soffocamento. Come dicevamo ieri i due casi di per sé differenti le manifestazioni pro liberazione di Navalny, detenuto in carcere in Russia senza poter essere visitato da un medico nonostante le sue cagionevoli condizioni di salute, e il verdetto esemplare contro l’agente Derek Chauvin, evidenziano una linea comune: segnalare e prendere in toto le distanze da ogni forma di abuso di potere e abuso delle armi specie se perpetrati a nome dello Stato o di una comunità, di una etnia.
Vi lasciamo dunque alla descrizione minuziosa del caso, letto in quest’ottica, eseguita da Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo del Miur e giudice minorile, che ben fa comprendere il perché tale condanna sia ancora più esemplare negli USA rispetto a qualsiasi altra condanna per omicidio, qui si va oltre: il verdetto é storico perché ci si vuole finalmente dissociare dalla violenza in ogni suo genere a maggior ragione se per assurdo perpetrata da quanti dovrebbero difendere i cittadini.
“Un verdetto senza appello ed inequivocabile quello emesso dalla Corte di Minneapolis nei confronti dell’ex agente di polizia Derek Chauvin, che il 25 maggio del 2020 aveva provocato la morte di George Floyd il 46enne afroamericano, padre di cinque figli, divenuto icona del movimento Black Lives Matter.
Ci sono volute oltre 10 ore di camera di consiglio per la giuria – composta da sei bianchi e sei persone di colore, sette donne e cinque uomini- che ha smontato la tesi difensiva dei legali dell’imputato che tendevano ad attribuire la morte di Floyd ad altre cause, come l’assunzione di droghe o asseriti problemi cardiocircolatori, e ha concluso per la colpevolezza dell’imputato sotto tutti e tre i capi d’accusa per i quali era stato rinviato a giudizio, non escluso il più grave, quello di omicidio colposo preterintenzionale.
Scartando nella disamina del caso ogni tipo di attenuante che potesse dar luogo a reati minori e a pene più lievi. Lo stesso Presidente Joe Biden aveva parlato nei giorni scorsi di prove schiaccianti a carico di Chauvin, esponendosi anche a polemiche politiche peraltro pretestuose, d’altra parte il filmato visto e rivisto in tutte le TV del mondo è di una eloquenza assolutamente evidente e incontestabile.
L’ex agente aveva tenuto il ginocchio sul collo della vittima accasciata a terra a fianco dell’auto della pattuglia che lo aveva fermato, per oltre nove lunghissimi minuti provocandone il soffocamento. E questo davanti all’inerzia dei colleghi , con efferata spregiudicatezza.
Il pronunciamento della giuria di Minneapolis è stato accolto con un’ovazione dal pubblico assiepato in aula e dalle centinaia di persone convenute fuori dal Palazzo di Giustizia.
La tensione nella comunità afroamericana era divenuta palpabile e un esito diverso avrebbe potuto provocare una vera e propria rivolta popolare: si è trattato forse della più eclatante protesta della storia degli USA. Gli slogan scanditi dal popolo afroamericano e dai bianchi che riempivano la piazza antistante e che avevano animato le strade della città nei giorni precedenti, ricordavano anche il ragazzo ventenne Daunte Wright, ucciso tempo addietro sempre nei pressi di Minneapolis, dalla polizia che l’aveva fermato per una banale infrazione stradale.
Questo è l’ennesimo capitolo di una lunga storia di accanimento di agenti della polizia americana nei confronti di uomini e donne di colore, una cosa inammissibile della quale il corpo armato e l’intera nazione americana avrebbe dovuto con maggiore determinazione e chiarezza decisamente ‘vergognarsi’, prendendo le distanze dai numerosi casi succedutisi negli anni, anche di persone uccise a bruciapelo nonostante avessero le braccia alzate in segno di resa. La reiterazione dei fatti non si esaurisce nella responsabilità di un singolo.
La fiaccola della Statua della libertà si sarebbe metaforicamente spenta forse per sempre se il verdetto non avesse reso giustizia al crimine commesso dall’agente di polizia incriminato.
Chi ha la mia età ricorda le battaglie civili di Martin Luther King a difesa dei diritti di uguaglianza, libertà dei neri americani e contro la discriminazione razziale in tutto il mondo.
Una vera e propria icona generazionale il cui assassinio aveva scosso profondamente la coscienza morale e civile degli abitanti del pianeta, nonostante anni di lungo e inaccettabile imbarazzo presso coloro che in qualunque modo accettavano o tolleravano la vergognosa e inqualificabile discriminazione razziale.
Nemmeno dopo quel periodo di lotta civile, pacifica e non violenta l’America ha mai saputo risolvere un problema che era diventato una questione di civiltà giuridica, di valori comunitari, di rispetto per la dignità umana. Ora Biden promette una legislazione che metta fine a questa indegna tolleranza della violenza.
Ciò, nonostante la solennità dei principi affermati nella Carta dei Diritti (i primi dieci emendamenti della Costituzione), l’autorità della Corte Suprema, la figura del Presidente degli Stati Uniti che rappresenta l’unità del Paese, l’afflato religioso e il ‘giorno del ringraziamento’.
Fa specie che la più grande e progredita democrazia del mondo occidentale abbia impiegato tanti anni per giungere ad un verdetto che si auspica possa essere una svolta e una pietra miliare nella lunga militanza a difesa dei diritti umani, per evitare che certe aberranti discriminazioni possano ripetersi.
Ora il colpevole dell’omicidio rischia fino a 40 anni di reclusione: la sentenza sull’entità della pena sarà pronunciata dal giudice Peter Cahill nelle prossime settimane. Eppure tre giorni dopo il verdetto una ragazza di colore è stata uccisa sempre dalla polizia di Minneapolis, nonostante fosse stata immobilizzata.
Perciò serve una svolta che sradichi una mentalità di prepotenza e violenza razziale, alimentata anche dalla lobby delle armi che spesso mette in mano il primo fucile a ragazzini di dieci anni”.
Ringraziamo Francesco Provinciali per averci permesso, fornendoci due scritti di pregio, di giungere a riflessioni che vanno oltre la consapevolezza della gravità dei fatti in sé, ma che gridano un deciso ‘no’ all’uso della violenza in ogni sua forma.