Papa Francesco in questi giorni, precisamente il 3 ottobre 2020 ad Assisi, ha firmato la sua terza enciclica che, con un sintetico commento, è stata definita enciclica sociale. Molte sono le considerazioni che devono essere fatte per cogliere fino in fondo il pensiero contenuto in questo nuovo testo. Per poter fare qualche riflessione seria, è necessario fare quello che San Giovanni XXIII, riprendendo vecchi canoni, chiamava “ruminatio”. In altre parole, è necessario riflettere, cosa che faremo sicuramente nei prossimi mesi su questo quotidiano.
L’evento – e quindi il lavoro di Francesco – non va però trascurato nel dibattito pubblico per lasciare posto alla sola riflessione. Qualche aspetto merita già da ora di essere sottolineato, dopo aver fornito qualche richiamo introduttivo, utile ad inserire il documento nel quadro generale del pensiero dottrinale della Chiesa.
Francesco ha presentato la sua lettera – che questa volta non ha destinatari specifici (e anche per questo motivo è da capogiro il cammino compiuto, in quanto, guardando i destinatari delle encicliche nel tempo si è passati dai vescovi, ai cattolici, agli uomini di buona volontà, per arrivare a tutti gli uomini) – accostando al sostantivo “enciclica”, l’aggettivo “sociale”. Come giustamente è stato osservato, questo aggettivo serve a definire un genere letterario, che si trova all’interno della raccolta delle encicliche, quello cioè delle encicliche sociali.
Il primo pontefice ad usare questa espressione fu Leone XIII che, nel 1891, pubblicò la “Rerum Novarum”, un documento sulla “questione operata”. A partire da questo papa, sono definite sociali tutte quelle encicliche che affrontano, da un punto di vista cristiano, le questioni sociali più dibattute. Dalla lettura di questi testi si può ben ricavare il quadro complessivo di quella che oggi forma la dottrina sociale della Chiesa, secondo una fortunata definizione di Pio XII. È stato proprio lui , infatti, ad usare per la prima volta questa espressione.
Si può aggiungere che quella di Francesco è l’undicesima enciclica sociale, poiché vari pontefici hanno affrontato argomenti di questo tipo, legandoli alle problematiche del loro tempo. Guardando questi scritti si coglie in modo molto preciso l’evoluzione del pensiero pontificio e, soprattutto, la capacità della Chiesa di leggere attentamente i segni del tempo.
Si può, quindi, correttamente dire, come è stato acutamente osservato, che dal 1891, anno di pubblicazione della Rerum Novarum, incominciano ad essere trattati dalla Chiesa temi che riguardano le giuste rivendicazioni proletarie, il valore sociale della proprietà privata, che non deve essere solamente a servizio della libertà della persona e della famiglia, il principio della sussidiarietà dell’intervento statale, il diritto all’associazionismo sindacale, il diritto ad un salario che garantisca il dovuto sostentamento del lavoratore e della sua famiglia.
Come già detto, sono 11 i documenti sulla dottrina sociale e sono 8 i papi che hanno pubblicato testi su questa problematica. Oltre alla già più volte citata prima enciclica, quella di Leone XIII, è opportuno tenere presente la Quadragesimo anno di Pio XI (1931), la Mater et Magistra di Giovanni XXIII (1961), la Pacem in terris sempre di Giovanni XXIII (1963), la “Populorum Progressio” di Paolo VI (1967), la “Laborem exercens” (1981), la “Sollecitudo rei socialis” (1987), la “Centesimus annus” (1991) tutte e tre di Giovanni Paolo II, la “Caritas i veritate” di Benedetto XVI (2009), la “Laudato Si. Sulla cura della casa comune” di Francesco (2015).
Oltre a questi dieci testi, pubblicati prima della “Fratelli tutti”, si deve aggiungere anche un documento, con contenuto certamente sociale, presentato sotto forma di lettera apostolica, l’Octogesima adveniens, di Paolo VI (1971). Una rilettura di tutti questi atti pontifici permette di evidenziare la capacità della Chiesa di leggere e di interpretare la realtà sociale nella quale è inserita e, soprattutto, permette di cogliere il pensiero cristiano rispetto ai grandi temi dei vari periodi.
Leone XIII affronta la questione operaia in un mondo in cui il socialismo, ispirato dalla filosofia marxista, sembrava essere l’unica risposta alle problematiche degli operai. Giovanni XXIII fa sentire la sua voce e quella della Chiesa sulle questioni internazionali, mentre imperversa la guerra fredda. Paolo VI, con una magistrale e felice intuizione, da un nuovo nome alla pace ricordando, nella Populorum Progressio, che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”.
Analoga considerazione si può fare sul nuovo modo di intendere il lavoro operato nella Laborem exercens e sulla denuncia dei pericoli e dei limiti del capitalismo, contenuta nella Centesimus annus, due encicliche di Giovanni Paolo II. Benedetto XVI affronta, invece, le caratteristiche di una nuova economia che abbia nuove norme etiche. Con Francesco e la sua “Laudato Si”, per la prima volta, in modo sistematico e puntuale, viene presentato un originale, ma corretto e completo, concetto di ecologia integrale, cioè un’ecologia da collegare e da integrare con la politica e i suoi modelli di sviluppo con l’economia e le sue formule di previsione, ma, soprattutto, con l’antropologia.
Sotto questo punto di vista, la Laudato Si, si può ben considerare l’ultimo sviluppo del percorso della dottrina sociale della Chiesa, che prende in esame un nuovo sfruttamento, che si pone accanto agli altri, quello del creato che, invece, deve essere considerato come soggetto con le sue prerogative e i suoi diritti.
Il titolo dell’enciclica riprende una frase di San Francesco contenuta nelle Ammonizioni. Indica una fratellanza non solo umana. Dell’uomo è fratello, infatti, tutto il creato, secondo quanto, tra le altre cose, è contenuto anche nel Cantico delle Creature. Del resto la Fratelli tutti rappresenta il logico sviluppo della precedente enciclica dello stesso papa, la Laudato Si.
Non deve sfuggire al lettore, infatti, che la fratellanza è il tema dominante del papato di Francesco, tema messo subito in evidenza con un gesto. Quando, appena eletto, Bergoglio si è presentato dalla loggia di San Pietro al popolo romano che lo applaudiva, ha chinato la testa per affermare che il rapporto tra vescovo e popolo era, ed è, basato ed attuato con “un cammino di fratellanza”.
L’enciclica, che nel testo vaticano è di 97 pagine, è articolata in otto capitoli, che difficilmente in poche righe possono essere riassunti. Meglio sarebbe evidenziare gli argomenti singoli perché, in questo modo, si ha l’elenco completo delle tematiche. Ogni singolo punto richiede poi gli opportuni approfondimenti con i dovuti richiami storici.
Non si deve mai dimenticare che Francesco è un personaggio che ama la riflessione filosofica e teologica – del resto è nota la sua preparazione in questi campi – ma è anche uomo d’azione, abituato a declinare nella vita quotidiana i principi astratti delle riflessioni degli studiosi e dei pensatori. Anzi, si potrebbe dire di più: molte delle sue riflessioni contenute nell’enciclica richiamano episodi direttamente collegati al suo pontificato.
Vediamo qualche richiamo ai punti fondamentali.
Il punto di partenza deve essere la riscoperta dalla fratellanza che, come si è visto, deve essere cosmica. Nel mondo di oggi, però, molti sono gli elementi che ostacolano la creazione di questa fratellanza senza muri, anzi contribuiscono a erigere divisori gravi: la politica – e di questo parleremo di un paragrafo successivo – la cultura dello scarto, come conseguenza di una politica che cura solo ed esclusivamente l’immagine, il mancato rispetto dei diritti umani, che blocca lo sviluppo di qualsiasi paese, la negativa valutazione della migrazione, in quanto lede un diritto naturale dell’uomo, vale a dire la possibilità di spostarsi da un’area all’altra del globo, i rischi collegati alla comunicazione, la quale, mentre riduce le distanze, crea a volte atteggiamenti di chiusura ed intolleranza.
Di fronte a tutti questi drammi della vita sociale, esistono per Francesco percorsi di speranza. Rinviando ad altro approfondito studio l’esame dell’impianto dell’enciclica, ritengo opportuno soffermarmi su qualche tema che ha sollevato subito un accanito dibattito, molte volte sbagliato, su alcune affermazioni contenute nell’enciclica. Dirò, infatti, qualcosa sulla visione di Francesco relativamente a proprietà privata, popolarismo e liberalismo.
Qualche organo di stampa ha, con caratteri cubitali, accusato il pontefice di essere contro la proprietà privata. Nulla di più sbagliato. Papa Francesco ha inserito l’argomento in un contesto molto più ampio, in quanto ha prima trattato, da un punto di vista filosofico e teologico, l’argomento dei beni creati e poi ha affermato che questi non necessariamente devono finire in mano di pochi.
Se oggi questi beni creati sono in mano di pochi, questo sta ad indicare che il piano della creazione è stato violato. A prova di questa tesi, il pontefice cita e fa suoi tre testi, due di autori antichi e uno di un suo predecessore contemporaneo.
I due antichi sono San Giovanni Crisostomo e San Gregorio Magno e l’altro, San Giovanni Paolo II, pontefice quest’ultimo dei nostri tempi. Non rubo spazio per citare i documenti degli antichi pensatori, ma reputo indispensabile citare Giovanni Paolo II, le cui parole, come dice Francesco, non sono state forse fino in fondo comprese: “Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri senza escludere né privilegiare nessuno”. Lo stesso Giovanni Paolo II, nella Laborem exercens, sostiene che “il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale”.
Come si vede papa Francesco nella Fratelli tutti non ha introdotto delle novità, ma ha semplicemente ripreso quanto altre fonti autorevoli avevano già proclamato.
Dopo aver fatto una solenne affermazione dell’importanza di quella che Francesco chiama la migliore politica – di quella politica cioè che è posta solo ed esclusivamente al servizio del vero bene comune – il papa registra subito un aspetto negativo di questa, “in quanto oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso”.
Per il pontefice due sono i tarli che danneggiano la politica: il populismo ed il liberalismo, perché sia il primo che il secondo mettono in evidenza la difficoltà a pensare un mondo aperto dove tutti possono trovare il loro posto e, quindi, un luogo dove ci sia spazio per i singoli e ci sia rispetto per le diverse culture. Può sembrare strano ma le due visioni hanno un denominatore comune: il mancato rispetto del popolo, che viene strumentalizzato in entrambi i casi. E che invece deve essere il vero autentico soggetto della vita comunitaria.
Per quanto riguarda il populismo, Francesco parte da una costatazione: i mezzi di comunicazione hanno generato una nuova mentalità dividendo gruppi e società in due categorie: populisti e non populisti. Ogni volta che una persona si espone in temi sociali viene classificata o in un modo o nell’altro, per cui il populismo viene usato come chiave di lettura della realtà sociale. Il popolo tanto invocato però diventa uno strumento in mano di pochi che lo usano per raggiungere solo ed esclusivamente scopi ed interessi di parte.
Francesco vede nel concetto di popolo un valore molto più alto. Per Francesco il popolo rappresenta un insieme di elementi che possono avere anche richiami giuridici o logici. Non solo però. “Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile … verso un progetto comune”. Il concetto di popolarismo è, quindi, diverso, più completo e molto più rispettoso anche dell’individuo per il vincolo che genera tra le persone che appartengono ad una comunità che è “una di lingua, patria e altare”.
Non solo; il leader, che viene espresso dal popolo, è capace “di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società”; è altresì dotato dell’intuizione per costruire un progetto duraturo di trasformazione e di crescita. Tra le doti importanti di un leader c’è anche la capacità di cedere il posto ad altri nella ricerca del bene comune, quando questo è richiesto dagli eventi.
Dal popolarismo si passa al populismo quando prevale l’abilità di qualcuno nell’imporre la propria volontà non per costruire il bene comune ma per imporre un proprio piano personale, sfruttando il popolo senza farlo crescere.
La parola “popolo” dai populisti è deformata e strumentalizzata. Così come è deformata quando si tende a proporre soluzioni immediate senza un corretto e serio piano generale. È sbagliato considerare gli interventi urgenti in termini positivi, se non è ben presente l’aggettivo provvisorio. Importante è anche questa ulteriore considerazione: il vero leader popolare è quello che lavora per garantire il lavoro a tutti, perché il lavoro è l’occasione che permette alla persona di svilupparsi e, per qualche verso, di continuare l’opera vera della creazione, che non rappresenta un atto definito ma un continuo divenire.
Nella visione liberale, la categoria di popolo è sostanzialmente valutata in termini riduttivi o, molte volte, neppure presa in considerazione. Il pensiero liberale definisce infatti la società, e quindi il popolo, una somma di interessi individuale e di conseguenza la definizione liberale di popolo finisce per essere incompleta, perché non dà spazio a tutti gli elementi, che sono collegati ad una comunità; questa infatti possiede tradizioni, storia culturali e quindi ha radici profonde.
C’è di più in termini poco positivi: la dottrina politica liberale riconosce i diritti del singolo, assegnando allo stato, struttura istituzionale sì di una comunità, ma non esclusiva, il solo compito di garantire, somministrandola, la giustizia, intesa come la difesa dei diritti individuali, ne cives ad arma veniant (affinché i cittadini non vengano tra di loro alle armi).
Questa visione, semplificando i concetti, produce riconoscimenti formali e non sostanziali. In base a queste teorie si può anche dire che il ricco ha diritto di essere ricco e il povero ha diritto … di essere povero. La filosofia politica liberale non prevede infatti nessun meccanismo idoneo a far uscire l’indigente dalla sua condizione di sofferenza, né prevede tra i compiti dei governi quello di favorire la crescita sociale di chi ha bisogno.
In certi contesti si aggiunge anche un fatto culturale dei liberali molto negativo: “l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società”. Per queste visioni politiche liberali “ la categoria di popolo è la mitizzazione di un qualcosa che in realtà non esiste. Invece il contesto sociale deve necessariamente esistere, altrimenti lo sforzo del singolo è destinato a fallire.”
A questo proposito il papa introduce la parabola del buon samaritano, che, alla fine, per risolvere il problema dell’assistenza al ferito,deve portarlo alla locanda. Questa riflessione vale a tutti i livelli, quindi anche per le istituzioni, le quali hanno bisogno di operare in un ambito internazionale molto più organizzato di quanto lo sia attualmente. Evidente anche da questa visione una valutazione critica per certi aspetti dell’ ONU e un invito non certo a scomparire ma a migliorarsi.
Ho voluto tracciare alcuni aspetti dell’ultima enciclica di papa Francesco. Si tratta di un primo approccio e di una provvisoria valutazione. Su questi argomenti tornerò nei prossimi numeri. Può anche questa un’occasione per costruire fratellanza e farmi perdonare la rapsodica presentazione di un pensiero, che merita di essere presentato in termini globali.
Prof. Franco Peretti
Cultore di storia della dottrina sociale della Chiesa