L’eutanasia è una tematica che affanna, da tempo, i dibattiti pubblici su più piani – culturale, politologico, giuridico, filosofico e religioso – ma che poco affanna l’opera riformatrice del legislatore. ‘Eutanasia’ di per sé è una parola che può spaventare chi non ne conosce l’etimologia composta, derivante dal greco antico (eu-tanasia: “morte dolce” o “buona morte”).
Il concetto di relativa normalità tragica che dimora in questo termine sembra ancora spaventare chi è cresciuto di solo pane e favolette. L’eutanasia può essere considerata adeguatamente, con maturità d’inquadramento, soltanto ove associata alla più grande ed eterogenea questione della libertà di ogni individuo di essere libero, e di esserlo fino alla fine della propria esistenza.
La questione delle libertà laiche della persona, e con essa la specifica questione della legalizzazione delle scelte autodeterminative sul fine vita, hanno rappresentato nel loro insieme il cuore di nobili confronti fra visioni contrapposte sul come-vivere-quaggiù, o quassù, se si preferisce. Sulle più generali libertà civili della persona, la tradizione politico-repubblicana e post-mazziniana ha maturato un filone di meditazioni che ha elevato l’equilibrio a strumento metodologico di lettura della realtà, stagione dopo stagione. Incuriosisce quindi capire le posizioni storiche e attuali dei Repubblicani in tema di eutanasia, di libertà di autodeterminazione terapeutica nonché di fine vita.
Notoriamente la galassia politica molto impegnata sul tema dell’eutanasia è la galassia radicale. I Radicali hanno testimoniato e testimoniano politicamente quanto sia stato duro far uscire fuori, alla luce del sole oltre l’indifferenza, il dramma delle persone che vivono l’irreversibilità di una malattia totalitariamente invasiva, degenerativa, insopportabile. E testimoniano anche quanto ancora oggi a tratti risulti ‘eretico’ il semplice parlarne per escogitare soluzioni liberali, nel rispetto di tutti. Così l’Associazione Luca Coscioni, l’Istituto Luca Coscioni e poche altre realtà militano per un espresso e completo riconoscimento legale del diritto eutanasico.
I Repubblicani italiani vantano una storia lunghissima e affascinante, a cui dovrebbero accostarsi tutti gli amanti dell’evoluzione nelle libertà che hanno portato l’individuo-suddito a farsi individuo-cittadino razionale. Come con ogni questione che rintracci le proprie linee paradigmatiche tra le linee maestre delle libertà civili, non possiamo non tener conto del faro repubblicano della tradizione laica nel suo farsi politica. È molto interessante quindi capire se c’è e, se sì, qual è la posizione assunta dai post-mazziniani in tema di eutanasia e fine vita. È interessante anche avere contezza dell’eventuale stato dei lavori in materia, nei cantieri sempre aperti del Partito Repubblicano Italiano (PRI).
Ne parliamo con Corrado De Rinaldis Saponaro, segretario nazionale del PRI:
“L’eutanasia non c’è nella tradizione storica del Partito Repubblicano Italiano, c’è la libertà dell’individuo a determinare la propria vita e quindi i vari passaggi della sua vita. Noi siamo per la libertà. Certo, oggi si parla di eutanasia e si parla di eutanasia per casi specifici che abbiamo vissuto in determinate situazioni, e noi eravamo sempre dalla parte di chi sosteneva che ci possa essere questo diritto da parte dell’ammalato e da parte delle persone più intime all’ammalato. Questo diritto va esercitato nella misura in cui gli aspetti di guarigione o gli aspetti di tornare a una normalità sono chiusi dalla scienza, con una chiusura che non è dubitativa ma una chiusura certa da parte degli scienziati”.
“La Chiesa cattolica evidentemente, siccome è una istituzione importante nel mondo ma in particolare nel nostro Paese, ha apportato argomentazioni di carattere morale e di carattere anche giuridico, ma le ha portate con eleganza. Coloro invece che le hanno portate in modo sguaiato e anche volgare sono stati coloro i quali volevano interpretare la Chiesa cattolica in modo più forte di quanto la Chiesa cattolica avesse bisogno di essere interpretata. Coloro i quali volevano essere i più bravi della classe spesso dicevano delle cose che offendevano la famiglia della Englaro e tutti coloro i quali la pensavano in modo diverso. Rispetto a questi dibattiti non c’è un problema di appartenenza ad un partito, c’è un problema di fare i conti con la propria coscienza. E quando si fanno i conti con la propria coscienza non si possono aprire polemiche partitiche ma bisogna approfondire bene le tematiche, e soprattutto capire le questioni. Se si parte da posizioni di rigidità non si approda all’avanzamento della società inteso nell’ampliamento dei diritti dell’individuo”.
“Su questo tema non abbiamo fatto una sessione particolare, ma quando ci sono stati gli ultimi episodi, l’anno scorso e due anni fa in Svizzera, e l’assoluzione del deputato radicale Marco Cappato, i Repubblicani nella maggior parte si sono felicitati con Cappato perché aveva propugnato una causa giusta per noi, e da noi ampliamente condivisa”.
Un ringraziamento sentito al segretario nazionale del PRI per la disponibilità ad un sempre brillante dialogo.
Sì, la vicenda giudiziaria del radicale Cappato ha scosso le coscienze e le competenze dei giuristi, ma non quelle del legislatore. Sul c.d. “caso Cappato” la Corte costituzionale nel 2018 ha emanato dapprima un’ordinanza cosiddetta “di rinvio ad udienza fissa”, la prima di questa tipologia nella storia italiana (ispirata invero al panorama francese), affinché fosse il legislatore ad occuparsi della delicata e urgente questione.
Era infatti in ballo una magistrale analisi circa l’irragionevolezza della scelta di parificare giuridicamente l’aiuto al già deciso suicidio consapevole con l’istigazione e con ogni condotta di carattere determinativo o rafforzativo del proposito suicidario altrui.
La Corte ha escogitato la (italianamente) inedita soluzione del rinvio ad udienza fissa quale riflesso procedurale di una carsica incostituzionalità differita, affinché fosse il legislatore ad occuparsi della questione del fine vita e non la Corte costituzionale stessa, e nemmeno l’andamento ondivago delle giurisprudenze su più livelli. Di fronte al silenzio del legislatore che ‘non ha accettato’ l’invito della Corte a fare il legislatore, la Corte costituzionale nel 2019 è intervenuta definendo meglio nonché in modo costituzionalmente orientato la condotta di aiuto al suicidio che possa integrare reato.
Nel canalizzare catarticamente i lettori e non semplicemente per allietarli, voglio condividere alcuni passi letterari sulla legge, sulla morte nonché sulla vita, e sulla cura della umana fragilità affinché questa cammini sempre a nudi piedi morali e senza filtri moralisti sul terreno mobile della coscienza, anticamera di ogni autodeterminazione. Voglio condividere alcuni passi di un’opera pubblicata a New York nel 1923: ‘Il Profeta‘ di Kahlil Gibran, autore che ha saggiamente costituito un trait d’union tra il mondo occidentale e la grandiosità dell’Oriente.
A proposito delle “Leggi” ne ‘Il Profeta‘ si può leggere quanto segue: “che dire di quelli per i quali le leggi fatte dall’uomo non sono torri di sabbia, e per i quali la vita non è un oceano, ma una roccia, e la legge uno scalpello con il quale la vorrebbero scolpire a propria somiglianza? (…) Gente di Orphalese, voi potrete soffocare il rullo del tamburo e allentare le corde della lira, ma chi potrà comandare all’allodola di non cantare?”.
E a proposito della “Morte” ne ‘Il Profeta‘ si legge: “Se volete davvero afferrare lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore sul corpo della vita. Poiché la vita e la morte sono unite e indivisibili, proprio come lo sono il fiume e il mare” (traduzione dall’inglese all’italiano del The Prophet a cura di G. F. Brambilla per Feltrinelli Editore).
Senza alcuna pretesa di chiudere il cerchio intorno alla piramidalità dell’io nei suoi plurimi flussi di coscienza, finisco senza concludere la mia indagine sulla vita, nella politica e attraverso la politica, ricordando a me stesso il passo del mio vecchio romanzo ‘Culla sull’oblio‘, scritto nel 2009 ed edito nel 2010, disponibile on line anche sul sito Feltrinelli. Poca ed anzi infima cosa rispetto al genio del Gibran, ma dalle elevate vette di trait d’union voglio riscendere alla mia pianura vagante.
In ‘Culla sull’oblio‘ il concetto di “culla” indica non solo l’infanzia ma ogni persona fragile, includendo anche gli ammalati, i bloccati nella vita dalla condizioni infauste della vita stessa, e ancora, gli irriducibili individui innamorati della vita ed al contempo esercenti del proprio destino libero. Mi cito per aprire, così come mi sono ulteriormente aperto al patrimonio valoriale repubblicano anche attraverso l’intervista di cui sopra; mi cito per lasciare aperto il portone, e non per chiudere:
“Si vive semplicemente su una terra che non ci è dato conoscere nelle sue intrise finalità, forse esistenti forse proprio spesso inesistenti a se stesse, in fin dei conti. (…) C’è chi si arresta al rimirare, e chi si perde negli abissi della propria psiche maledetta. Chi fa l’amore con gli altri e con sé. Chi lo fa anche con il cielo. Ma una culla deve pur continuare a ricevere amore. L’amore! Senza lasciare che cresca orfana e dispersa in un’età in cui il vivere è solo un quesito piacevole. La vita accetta tutto. Accetta persino di sniffare sulle ceneri ballerine della morte. Non accetta però, il moto d’una culla d’esser messo da parte. D’esser lasciato al sorriso fatale dell’onda dell’oblio”.
Luigi Trisolino