È un giorno triste per i colori giallorossi, più in generale per il calcio italiano: Daniele De Rossi lascerà a fine stagione la Roma per trasferirsi in un campionato estero. Detto in questi termini potrebbe sembrare che il giocatore abbia preso la decisione di monetizzare il più possibile gli ultimi anni di carriera e andare a giocare in campionati meno impegnativi rispetto a quello italiano.
Questa situazione ricorda un po’ il recente caso al Napoli di “Marechiaro” Marek Hamsik, trasferitosi in Cina, oppure di “Pinturicchio” Alessandro Del Piero alla Juventus, approdato a fine carriera nel campionato australiano e poi in quello indiano, o dell’esempio blaugrana di Andrés Iniesta, sbarcato in Giappone nella scorsa estate. Tre esempi citati non a caso, in quanto rappresentativi di giocatori considerati delle vere e proprie bandiere. Bandiere che per volontà propria o della società sono state costrette a lasciare quella maglia che da sempre è stata come una seconda pelle.
Capitan Futuro, nella conferenza stampa indetta ieri, ha messo a nudo se stesso e quelle che sono le emozioni più intime. Visibilmente commosso ha spiegato che la società, ultimamente poco romana e più a stelle e strisce, considera ormai Daniele un pezzo di antiquariato, uno di quei calciatori che si infortunano ogni tre per due e non lo reputano più all’altezza di competere ad alti livelli. Il ruolo che avrebbero pensato per lui è quello di dirigente, una sorta di vice Totti oppure il braccio destro del Ceo Guido Fienga. La risposta dell’interessato è stata ovviamente: no! Quello che l’appassionato medio di calcio si chiede è:
Partiamo dall’osservazione estetica dell’uomo. De Rossi a prima vista potrebbe essere paragonato ad un guerriero vichingo, dalla barba lunga e rossa, un’espressione del viso tale da incutere timore e rispetto negli avversari, entrambe le braccia riempite di tatuaggi colorati sino all’altezza dei polsi, quasi come due fossero due tele sul quale l’artista ha ormai portato a compimento la sua opera. Questo paragone estetico è il corrispettivo del calciatore in campo: sempre pronto alla battaglia e dedito al sacrificio per la squadra.
Nei 16 anni di Roma, e nei 13 di Nazionale, non ha mai tirato indietro una sola volta la gamba, non ha mai smesso di correre e di sudare per i propri compagni. Certo a volte è stato accusato da esperti di calcio e da fantallenatori di prendere troppi cartellini gialli, ma il ruolo di un guerriero vero è quello di non tirarsi mai indietro di fronte alla battaglia, e questo i tifosi romanisti e delle altre squadre gliel’hanno sempre riconosciuto.
Daniele ha ammesso che l’unico rimpianto della sua carriera è quello di non aver potuto mettere in bacheca qualche trofeo in più. Questo desiderio si capisce che venga espresso più per i tifosi, che per se stesso. Come diceva Guccini “non è da un calcio di rigore che si giudica un calciatore“, e neanche dalle coppe e dagli scudetti vinti. E pensare che nella stagione 2009/2010 la Roma era andata molto vicino a vincere il suo terzo campionato della storia, arrivò a fine stagione a soli 2 punti dalla straordinaria Inter di Mourinho, che inoltre fu capace di realizzare il “triplete”. De Rossi quell’anno realizzo 7 reti in campionato, 3 in Europa League e 1 in Coppa Italia, un bottino totale di 11 gol che fu il suo record assoluto di segnature in una stagione.
Nonostante l’annata eccellente, per se stesso e per la squadra, non riuscì a realizzare il sogno di una vita, il coronamento di una carriera, vincere il campionato. Il caso volle che i giallorossi vinsero il loro ultimo scudetto un anno prima dell’esordio nella massima serie del centrocampista, stagione 2000/2001, e nei 16 anni successivi non avvenne più. Con i colori della propria città è riuscito a conquistare 2 Coppe Italia consecutive, nelle stagioni 2006/07 e 2007/08, ed 1 Supercoppa Italiana nel 2007.
Ma la trofeo più importante della carriera è rappresentato dalla Coppa del Mondo del 2006 vinta in Germania. Non tutti ricordano che Daniele giocò le prime due gare contro Ghana e Stati Uniti. Peccato che nel secondo match, al 26′ minuto del primo tempo, venne espulso per una gomitata su McBride, con conseguente squalifica di 4 giornate. Nonostante non potesse giocare, fu parte integrante del gruppo, capace di caricare i propri compagni e di cementare quel gruppo che fu in grado di creare quella magia che tutti conosciamo. Rientrò al minuto ’61 della finale contro la Francia.
Ai decisivi penalty calciò il terzo rigore, quello subito successivo all’errore di Trezeguet. Un giovane sbarbato, completamente differente dall’uomo di oggi, si presentò davanti a Barthez. Prese una rincorsa dal limite dell’area di rigore e arrivato nei pressi del dischetto scaricò con il destro tutta la frustrazione per essere rimasto in tribuna per 4 infinite giornate del mondiale. Il suo collo destro andò ad impattare in maniera così violenta, che non ci fu scampo per l’estremo difensore francese. Oltre che la potenza, il tiro fu contraddistinto da una precisione millimetrica, che andò ad infilarsi poco sotto l’incrocio dei pali alla destra del portiere. Quello che colpì molti fu il fatto che Daniele guardava fisso la palla. Quasi a simboleggiare il fatto che per troppo tempo gli era stata tolta ed ora era arrivato il momento riprendersela, e di farlo a modo suo. Lo sguardo concentrato sulla sfera rappresentò un fattore decisivo per la realizzazione, tale da non permettere a Barthez di intuire la conclusione.
Calciatori, allenatori e tifosi di tutta Italia hanno voluto manifestare la loro vicinanza a Daniele, prima di tutto all’uomo, oltre che all’atleta. Nella notte i tifosi della Roma hanno esposto uno striscione davanti alla sede della società che recitava: “Figli di Roma, capitani e bandiere. Ecco il rispetto e l’amore che questa società non potrà mai avere“. La scritta fa riferimento, oltre che alla vicenda attuale, all’addio di Totti, che accadde appena due anni fa, che secondo molti fu gestito male dalla dirigenza dell’epoca e a cui ancora molti fanno fatica ad abituarsi. Lo stesso “Pupone” con un tweet ha voluto manifestare l’affetto che lo lega all’amico e compagno di squadra: “Ti auguro il meglio in ogni cosa che farai… Perché sono sicuro che la farai alla grande, come tutto quello che hai fatto finora. Ti voglio bene Dani“.
Le bandiere nel calcio esistono ancora? La riconoscenza è un sentimento per cui c’è ancora spazio nel calcio moderno? Conta di più il sudore speso in campo o i gol realizzati? Valgono di più le statistiche, i trofei vinti oppure l’amore dimostrato per la propria squadra? Sono domande da vecchio appassionato di calcio, tifoso di uno sport che si è trasformato in una macchina da soldi. Mi ribello alla trasformazione e rendo onore ad un calciatore che dovrebbe rappresentare un esempio per chi pratica questo splendido sport e per chi lo segue.
Grazie di tutto Daniele. In bocca al lupo, anzi in bocca alla Lupa… perché sono sicuro che questo sarà soltanto un arrivederci.
Carlo Saccomando