Era esattamente il 27 luglio 2004 quando l’allora ministro del lavoro Maroni firmò la legge delega n. 243 sulle pensioni. Vediamo progressi e regressi dal 2004 ad oggi.
Il tema delle pensioni è sempre stato un tema scottante e una svolta importante fu introdotta da Roberto Maroni il 27 luglio del 2004 con la legge 243.
Una delle disposizioni della legge 243/2004 fu chiamata “Scalone” perché stabiliva un innalzamento dell’età pensionale. Con 35 anni di contributi, si spostò l’età pensionabile da 57 a 60 anni dal 2008, a 61 dal 2010 e a 62 dal 2014. Per le donne rimase la possibilità di andare in pensione a 57 anni di età a patto di accettare il calcolo integrale del sistema contributivo. Ma per incentivare i lavoratori a non andare in pensione malgrado l’età giusta per ritirarsi si concedeva loro un bonus
Uno scalone che italiani trovarono ingiusto e a cui cercò di porre rimedio il successivo governo Prodi che sostituì lo “scalone” con un meccanismo di aumento graduale dell’età pensionabile nell’arco di 4 anni destinato a produrre il medesimo effetto.
Tra le grandi novità introdotte dalla legga Maroni la modalità di ricevimento del Trattamento di Fine Rapporto (TFR) maturato a partire dal 1° gennaio 2007 si chiedeva al lavoratore se destinarlo a forme pensionistiche complementari (fondi negoziali collettivi, fondi aperti collettivi o individuali, forme individuali assicurative) o mantenerlo presso il datore di lavoro. Questo per incrementare la pensione del lavoratore che secondo il sistema contributivo, va a prendere il 52% dell’ultimo stipendio e quindi è conveniente ricorrere a forme pensionistiche private.
Negli anni successivi tra gli interventi più significativi sul sistema pensionistico è il già citato il ritocco di Prodi in merito all’età pensionabile sancita del tutto dalla Riforma Damiano-Padoa Schioppa 2007 che stabilì l’età pensionabile per le donne del pubblico impiego a 65 anni con aumento decorrente dal 2012. Il Tfr, invece, fu rateizzato. Ma il vero shock per gli italiani fu il decreto Salva Italia della ministra Fornero nel 2011. Con un intervento a gamba tesa il Salva Italia cancellò il sistema delle quote ed estense a tutti il sistema contributivo pro-rata in base al quale il reddito pensionistico lo si ricava esclusivamente sul versamento dei contributi degli ultimi anni di lavoro.
La legge Fornero innalzò ancora di più l’età minima per la pensione e le donne furono equiparate agli uomini. Le lavoratrici dipendenti del settore privato videro salire l’età pensionabile a 62 anni, limite ulteriormente innalzato a 63 anni e 6 mesi dal 2014, a 65 dal 2016 e a 66 dal 2018. Le lavoratrici autonome, l’età pensionabile passò da 60 a 63 anni e mezzo per poi raggiungere la soglia dei 64 anni e 6 mesi dal 2014, dei 65 anni e sei mesi dal 2016, attestandosi poi a 66 anni da gennaio 2018. Per i lavoratori del settore privato, infine, è fu deciso l’innalzamento dell’età pensionabile a 66 anni.
Arriviamo a tempi recenti con il Decreto Legge del 28 gennaio 2019, n. 4 al la cosiddetta “quota 100”, un regime di pensione anticipata rispetto alle precedenti previsioni. Un’opzione inserita nel periodo compreso tra il 2019 e il 2021, e quindi regime transitorio triennale.
La “quota 100” prevede che con un’età di 62 anni e un’anzianità contributiva di almeno 38 anni si possa accedere al trattamento pensionistico. In particolare nel triennio possono accedere alla pensione anticipata anche gli uomini con un’anzianità contributiva non inferiore a 42 anni e 10 mesi e le donne con un’anzianità contributiva non inferiore a 41 anni e 10 mesi.
È stata infine prevista la cosiddetta “opzione donna” per coloro che avessero raggiunto entro il 31 dicembre 2018 un’anzianità contributiva non inferiore a 35 anni e un’età di non meno di 58 anni, se dipendenti, o 59 anni, se autonome. Per i lavoratori precoci possibile, tra il 2019 e il 2026, l’accesso alla pensione in caso di anzianità contributiva non inferiore a 41 anni.
Per il futuro l’obiettivo è arrivare ad una proposta condivisa di Riforma Pensioni, dopo le proroghe inserite nella Legge di Bilancio 2021.
I punti chiave sono: garantire un’adeguata flessibilità di uscita dal mondo del lavoro, introdurre premi per il lavoro delle donne, ricalcolo contributivo. Il dibattito tra Governo e sindacati è aperto sul ricalcolo contributivo. Le parti sociali insistono sulla pensione di vecchiaia a 62 anni e anticipata con 41 anni di contributi ma in entrambi i casi preservando la quota retributiva eventualmente maturata.
Altro nodo fondamentale sono le pensioni dei giovani per tutelarli con una cifra adeguata visto che il mondo del lavoro delle nuove generazioni è basato su carriere discontinue e stipendi bassi.
Da rivedere anche temi legati al reddito dei pensionati e alla pensione complementare.