Il 5 giugno di sessant’anni fa e il 25 maggio di 25 anni fa sono capitati due eventi che hanno un punto di riferimento comune: l’ecumenismo, la cui storia ripercorreremo in questa riflessione, che permette di evidenziare un preciso collegamento tra il cammino passato della Chiesa e l’attività di questi tempi, vale a dire del pontificato di papa Francesco, il quale ancora una volta opera in totale sintonia con i suoi predecessori.
La prima data, il 5 giugno 1960, sta ad indicare e ricordare la nascita del Segretariato per la promozione dell’unità dei Cristiani, voluto da papa Giovanni XXIII , la seconda data è il giorno della pubblicazione dell’enciclica “Ut unum sint” di Giovanni Paolo II scritta per ribadire e rafforzare l’importanza del cammino verso l’unità dei Cristiani, unità, che viene vista dal santo pontefice come uno dei principali obiettivi della Chiesa del terzo millennio.
L’importanza di questi due anniversari non è ovviamente sfuggita a papa Francesco, che non solo con una sua lettera al cardinale Koch, presidente del Consiglio per l’unità dei Cristiani, ha richiamato l’importanza del valore dell’ecumenismo, ma ha anche richiamato la necessità che tutti i vescovi e la Chiesa tutta si facciano carico di capire fino in fondo con i dovuti approfondimenti questo argomento.
Una rilettura storica dei vari momenti può essere utile per cogliere il difficile ed arduo cammino della Chiesa verso l’unità, un cammino che da Giovanni Paolo II è stato definito come “irreversibile”. Ecco i punti salienti di questo percorso, che va dal 1960, periodo di Giovanni XXIII ad oggi, il tempo di Francesco.
Come si diceva nell’introduzione il 5 giugno 1960 Giovanni XXIII con un suo motu proprio (Superno Dei motu) istituisce il Segretariato per la promozione dell’unità dei Cristiani, nominando presidente un gesuita tedesco, da poco creato cardinale, padre Agostino Bea, destinato poi a passare nella storia come il “cardinale dell’Unità”: di questo prelato non merita di essere ricordato il suo puntuale e proficuo lavoro, teso al superamento di tutti gli ostacoli, che si frappongono, come è ben comprensibile, all’unità dei Cristiani, ma merita di essere presa in considerazione la definizione, con la quale in modo efficace è riassunto il lavoro di quegli anni.
Il cardinale Bea paragona il periodo delle origini e della fondazione del Segretariato “al granello di senape”, che da un punto di vista biologico è il più piccolo, ma è destinato ad una crescita e produzione abbondante. Non solo, Giovanni XXIII, che è convinto che il Concilio, appena convocato, deve avere due obiettivi: quello del rinnovamento della Chiesa cattolica e quello del ripristino dell’unità dei Cristiani. Così adotta alcuni provvedimenti importanti per gestire gli eventi ad esso collegati. Tra questi deve essere annoverato quello con il quale conferisce al Segretariato per l’unità dei Cristiani lo status di commissione conciliare per permettere a questo organismo di partecipare ai lavori del Concilio, anche se i componenti del Segretariato non sono di nomina assembleare.
Con un’altra decisione giovannea viene affidato al Segretariato nel novembre 1962 il compito di studiare in modo più approfondito, insieme alla commissione teologica, lo schema sulle fonti della Rivelazione, dopo che l’Assemblea conciliare nel discutere l’argomento, era entrata in crisi. Come si può notare Giovanni XXIII ha una grande fiducia nel Segretariato, che viene sovente dallo stesso Pontefice coinvolto in missioni delicate.
L’opera di Roncalli, compresi i suoi principi ispiratori, è recepita nello spirito e nelle procedure, da Paolo VI, che continua a guardare, come il suo predecessore, al Segretariato con molto rispetto, perché vede nel Segretariato lo strumento per tenere viva l’attenzione dell’Assemblea conciliare sull’ecumenismo, considerato elemento vitale ed indispensabile per il futuro della Chiesa. Non è un caso che il decreto sull’Ecumenismo, la dichiarazione sulla libertà religiosa e la costituzione dogmatica sulla rivelazione divina registrano, nella compilazione, la presenza importante e non marginale del Segretariato per l’unità dei Cristiani.
L’esame poi del pontificato di Paolo VI mette in luce anche dei gesti, che dimostrano la volontà del Papa e quindi della Chiesa di Roma di superare le divisioni tra i Cristiani. Mi sembra opportuno citare qualche testimonianza. Innanzi tutto Paolo VI alla fine del Concilio, in un’apposita cerimonia nella chiesa di San Paolo fuori le mura a Roma saluta le delegazioni delle altre Chiese e introduce un atto di preghiera, che da allora si ripete ogni anno con la partecipazione dei rappresentanti cristiani separati presenti in Roma.
Una seconda testimonianza: il 7 dicembre 1965, nella giornata di chiusura del Concilio, a Roma in San Pietro e a Costantinopoli in san Giorgio, a nome dei due sommi rappresentanti delle due Chiese viene letta una dichiarazione congiunta, con la quale sono cancellate le reciproche condanne pronunciate nel 1054, in modo da eliminarle “dalla memoria e dal centro delle Chiese”. Questa data, il 7 dicembre 1965 ben può essere considerata il punto di inizio per la conciliazione nella Chiesa tra Oriente ed Occidente.
Papa Paolo VI è anche profondamente convinto che i gesti per procedere verso l’ecumenismo non possono esaurirsi con il Concilio. Di conseguenza ritiene che tutte le problematiche riferite a questo tema devono essere affidate ad un organismo permanente collocato all’interno delle strutture operative della Curia romana. Con un suo motu proprio del 3 gennaio 1966 trasforma il Segretariato per l’unità dei Cristiani in un dicastero con tutti gli effetti giuridici conseguenti. Anche questo provvedimento è una tangibile prova dell’importanza data dal vescovo di Roma alla questione ecumenica.
Giovanni Paolo II, che è un convinto assertore dell’impegno della Chiesa di Roma a favore dell’ecumenismo con una sua costituzione, la Pastor Bonus, del 28 giugno 1988, dopo aver deciso di mutare il titolo del dicastero, ribattezzandolo “Pontificio consiglio per la promozione dell’ unità dei Cristiani”, pone sostanzialmente due principi.
Il primo consiste nel promuovere all’interno della Chiesa cattolica l’ecumenismo favorendo una formazione ecumenica per tutti i cattolici, con un puntuale contenuto: “Scopo della formazione ecumenica è che tutti i cristiani siano animati dallo spirito ecumenico, qualunque sia la loro particolare missione e la loro funzione nel mondo e nella società.”
Nella chiesa locale poi, e questo è il secondo principio, la responsabilità di creare una cultura ecumenica è in capo al vescovo, perché il ministero pastorale del vescovo è un servizio per creare l’unità. Sia chiaro che si tratta di un’unità molto più ampia dell’unità della chiesa, che al vescovo è affidata, è una unità che deve pure tendere a coinvolgere anche chi è fuori dalla sua giurisdizione, ma è battezzato.
Giovanni Paolo II in una sua enciclica, la “Ut unum sint”, pubblicata esattamente 25 anni fa (25 maggio 1995), poiché avverte le difficoltà del cammino ecumenico, difficoltà spesso legate a principi teologici, all’inizio del terzo capitolo si interroga sul cammino che resta ancora da compiere per arrivare a “quel giorno benedetto in cui sarà raggiunta la piena unità nella fede e potremo concelebrare nella concordia la santa Eucarestia del Signore”. Alla domanda il Papa non è in grado di dare una risposta : prende però atto che il percorso finora fatto è da considerare senza dubbio positivo. Soprattutto sottolinea Giovanni Paolo II che il cammino finora compiuto è inarrestabile.
Il cammino, non solo perché è inarrestabile, ma anche “perché risponde a sue precise convinzioni teologiche”, per Benedetto XVI deve continuare. Il pontefice del resto nel suo primo intervento, dopo essersi definito nel saluto ai fedeli accorsi in piazza San Pietro nel momento della sua elezione “un operaio nella vigna del Signore” nel suo discorso programmatico dice subito che “al successore di Pietro tocca un compito che sotto tutti i punti di vista deve essere considerato prioritario, quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostruzione della piena e visibile di tutti i cristiani”. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere.(Messaggio nella messa pro Ecclesia del 20 aprile 2005).
Guardando i suoi scritti si può in sintesi affermare che per Benedetto si raggiunge l’obiettivo ecumenico nel caso in cui si realizza una chiesa la quale è comunità che si riconosce totalmente nel Vangelo e vive nella fede apostolica. Giustamente è stato osservato che l’ecumenismo, per questo pontefice, è quindi a livello profondo una questione di fede e di unione di tutti i battezzati, nella preghiera sacerdotale del Signore, il quale vuole che tutti siano una cosa sola.
Con tutta la tradizione storica, che abbiamo appena richiamato, Francesco inizia il suo pontificato e le prime parole sono parole dalla portata e dal significato veramente ecumenico. Quando infatti si affaccia dalla loggia di San Pietro, confermando la prassi introdotta dagli ultimi papi, e porge il saluto definendosi non papa, ma vescovo di Roma, quindi pastore di una chiesa, quella di Roma, che “presiede nella carità tutte le chiese”, subito lancia un messaggio denso di significato ecumenico, perché quelle parole mettono in evidenza che Bergoglio ben sa che per molti il primato petrino rappresenta un grande ingombrante ostacolo sul cammino verso l’unità dei Cristiani.
Deve pertanto essere massima l’attenzione al fine di non urtare la sensibilità del prossimo. Dall’analisi attenta dei primi passi del suo pontificato, tra i tanti elementi importanti, emerge in modo chiaro anche la sua preparazione teologica, perché è bene ancora una volta sottolinearlo, Francesco ha una preparazione in questo settore di alto spessore, ma è anche nello stesso tempo una persona, che nella vita di relazione, e quindi nel rapporto con gli altri, tende a privilegiare, anzi privilegia, le azioni concrete ed operative.
Per Francesco la teologia è una delle componenti culturali dell’uomo, non è però per Lui quella più feconda e prioritaria. Serve la conoscenza teologica, ma non costruisce necessariamente rapporti tra gli uomini. La storia del resto insegna che le teorie teologiche hanno creato molto spesso delle profonde divisioni, che possono essere superate solo ed esclusivamente con il dialogo costante e continuo tra le persone. Francesco ritiene che il rapporto fra gli esseri umani, basato sulla collaborazione concreta, permette di stabilire anche degli obiettivi comuni, che si possono raggiungere a prescindere da differenti valutazioni culturali teoriche.
Con questo percorso metodologico, il papa ritiene che si possa lavorare per l’unità dei credenti e, alla fine, nonostante le diversità di pensiero, si possa raggiungere l’unità dei Cristiani. Il principio che anima il suo apostolato si può sintetizzare concretamente così: oggi esistono delle urgenze, quella della pace, dello sviluppo, della distribuzione equa della ricchezza ad esempio, queste urgenze interpellano tutti i credenti e tutti gli uomini di buona volontà. Se è necessario lottare per risolvere queste situazioni, poco importano le eventuali diversità teologiche degli studiosi. Allora è possibile sui problemi concreti la costruzione dell’ecumenismo.
Scorrendo l’elenco delle attività che hanno qualificato in modo particolare l’azione petrina di Francesco, ho scelto qualche episodio, che mi sembra particolarmente significativo per mettere in evidenza la sua azione per favorire l’ecumenismo. Dall’esame di questi episodi emerge un dato: Francesco tende ad incontrare le persone a tessere rapporti personali per lavorare con loro, non ha mai manifestato desiderio di discutere le tesi teologiche, che le persone, che incontra, portano avanti.
Come primo atto ecumenico dopo la sua elezione a vescovo di Roma Francesco incontra Bartolomeo della Chiesa orientale, quasi a voler ripetere, riprendendo il dialogo, l’incontro ormai passato nella storia di Paolo VI con Atenagora. È trascorsa solo una settimana da quando il conclave lo ha eletto: Francesco abbraccia Bartolomeo e lo chiama Andrea, come l’apostolo di Costantinopoli. Per la cronaca va detto che non si tratta di un particolare senza importanza. Atenagora aveva chiamato Pietro, papa Montini, quando si sono visti la prima volta.
In questi anni gli incontri di Francesco e Bartolomeo si sono ripetuti in diverse circostanze, perché il rapporto possa continuare in modo sempre più approfondito. Si deve registrare che si sta sviluppando un dialogo che rende l’ecumenismo “pane quotidiano” della vita cristiana. Del resto il problema è così sentito da papa Bergoglio da fargli scrivere nel paragrafo 244 dell’esortazione Evangelii Gaudium del novembre 2013 che “peregriniamo insieme e dobbiamo affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti”.
Francesco però non si ferma ai Cristiani delle Chiese orientali, sviluppa in termini importanti e concreti il contatto con gli Anglicani. È del 14 giugno 2013 il colloquio con il neoarcivescovo di Canterbury, Welby, durante il quale propone a Anglicani e Cattolici di lavorare insieme “per dare voce al grido dei poveri” affinché non prevalgano le leggi di un’economia , che schiaccia meno abbienti.
Il papa non tralascia di dialogare né con i fedeli della Chiesa Pentecostale (2014), né con i Valdesi (2015) per ribadire la necessità di una nuova stagione ecumenica. Nel 2016 è da registrare il primo colloquio a Cuba con Cirillo, patriarca di Mosca. Per chiudere questi richiami merita una sottolineatura particolare la presenza del Pontefice a Lunc per celebrare i 500 anni della Riforma protestante. Durante questa sua presenza ha voluto sottolineare la necessità di un profondo ripensamento delle ricchezze spirituali e dottrinali del XVI secolo, sottolineando come sono mancati i dovuti studi per superare le divisioni teologiche.
Prof. Franco Peretti
Cultore di storia ecclesiastica