• 21 Novembre 2024
  • ARTE

Benjamin, meglio l’opera d’arte che la sua copia: quanto incidono i social?

Riceviamo e pubblichiamo un articolo a firma Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo del Miur e giudice minorile. Si tratta di un articolo a commento di un saggio del filosofo, sociologo, epistemologo, antropologo Walter Benjamin che negli anni tra il 1934 e il 1939 aveva scritto una riflessione sulla riproducibilità dell’opera d’arte nell’epoca moderna, grazie all’ausilio delle nuove tecnologie. La sua conclusione era in estrema sintesi questa: La tecnologia favorisce la diffusione della conoscenza delle opere d’arte attraverso la loro riproduzione fotografica o iconica e di immagine, ma in questo modo si perde l’aura, cioè la bellezza dell’originale. L’originale si trova, infatti, in un museo, in una mostra , in un luogo dove viene messa in mostra la sua bellezza unica.

Si pensi solo per fare un esempio alla Pietà di Michelangelo o alla Monna Lisa di Leonardo, queste, fa intendere Provinciali a commento di Benjamin, possiamo sì vederle riprodotte in mille modi anche a mezzo stampa ma é solo l’originale che suscita emozioni irripetibili. Un conto è l’opera d’arte uscita dalle mani di un genio un conto la sua copia. Per l’antropologia del 900 si tratta di una riflessione fondamentale. Per noi oggi, ci dice Provinciali, può far anche comodo vedere tutte le tele di Caravaggio stando seduti sul divano di casa. Più democrazia nella fruizione artistica, ma meno emozioni rispetto al vedere, osservare un capolavoro originale.

Anche la comunicazione e la cultura dei social e dei media hanno sostituito a poco a poco quella che si trasmette per esperienza e competenza, perdendo in originalità e soggettività. Vi riportiamo il suo elaborato:

Quanto conta l’originale?

“Tra il 1935 e il 1939 Walter Benjamin – filosofo, scrittore, critico letterario e teatrale, sociologo, epistemologo tedesco- si cimentò in  più stesure del saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. L’ultima versione del 1939 uscì postuma solo nel 1955. La prima traduzione italiana apparve nel 1966 pubblicata dalla casa editrice Einaudi. Soggetto a varie revisioni e integrazioni da parte dello stesso autore ma anche a tagli redazionali non autorizzati e ad arbitrarie  manipolazioni il saggio fu di fatto riconsiderato dalla critica a partire dagli anni 60, diventando addirittura un testo citato e approfondito nelle Università durante il periodo della contestazione studentesca.

Tuttavia a poco a poco guadagnò una sua centralità nella cultura sociologica e artistica ortodossa del secondo 900 fino a diventare un classico nello studio, nell’analisi e nella valutazione della cultura di massa partendo da un particolare profilo di considerazione che peraltro si riassume nel titolo stesso del suo lavoro che – va precisato- non esprime solo una critica in senso deteriore sulla cd. “arte di massa”, volendone peraltro cogliere aspetti positivi e potenzialità culturali di cui oggi ci capacitiamo nella pienezza della loro valenza divulgativa.

Considerata l’epoca in cui Benjamin mise mano al suo lavoro di revisione critica del concetto di arte alle soglie della modernità, possiamo senza forzature concettuali ed epistemologiche considerare questo saggio come uno dei primi- forse il primo in assoluto- compendio di interpretazione intuitiva più che metodologica di un iniziale fenomeno di tensione verso la globalizzazione, partendo proprio dalla matrice artistica dell’analisi nella sua accezione estensiva di ”fruizione di massa” e di “divulgazione estesa dell’opera d’arte prodotta in altre parentesi temporali della storia.

Già dal primo paragrafo- per entrare subito in medias res – Benjamin evidenzia come l’opera d’arte – per sua natura fortemente identificata e contestualizzata nel suo autore e in un’epoca fino a caratterizzarla in modo distintivo  – è sempre stata riproducibile e riprodotta, per studio, passione o lavoro, attraverso procedimenti quali la xilografia ed altre tecniche grafiche, ma queste forme di riproduzione erano comunque procedimenti artigianali, di dimensioni limitate, legate ad una produzione prettamente manuale, con tempi e modi limitati per quantità e abilità del duplicatore.

La stampa – e siamo nel 1455 per merito di Johannes Gutenberg anche se in Asia si usava un sistema similare inventato da Bi Sheng  già dal 1041 – è stato il primo procedimento di riproduzione meccanico, che ha trasformato profondamente la produzione scritta e le sue forme di utilizzo. Allo stesso modo e con lo stesso ritmo la litografia ha reso possibile una riproduzione ed una diffusione commerciale capace di riprodurre anche le immagini e le scene della quotidianità e di riconfigurare il rapporto tra l’oggetto dell’arte, tradizionalmente elevato, e la vita. Queste tecniche erano tuttavia ancora legate ai modi e ai tempi della manualità: la fotografia e la ripresa cinematografica, dipendenti dal senso della vista, hanno impresso un’ulteriore accelerazione, raggiungendo la velocità del “qui e adesso” che era in tempi remoti privilegio intrinsecamente legato all’opera d’arte nella sua unicità al momento irripetibile: il concetto di fermo immagine (oggi usato ad es. nella scienza, nello sport, nella criminologia) derivava dalla lastra su cui era impresso il fissaggio di una ripresa in tempo reale. Ma le potenzialità tecniche presenti nella prima metà del XX° secolo non riguardavano solo la capacità di produzione e riproduzione artistica, ma modificavano anche le modalità di fruizione dell’arte da parte del pubblico.

L’intuizione di Benjamin consisteva dunque nell’evidenziare come lo sviluppo della scienza e della tecnica poteva incidere sotto diversi aspetti nell’accesso di un target sempre più esteso di persone al godimento estetico dell’opera d’arte, indipendentemente dall’epoca e dal luogo della sua produzione: ciò poteva avvenire in modo esponenzialmente crescente per rapidità e differenziazione grazie appunto all’evoluzione dei mezzi tecnici che ne consentivano la fruizione.

Quale l’intuizione di Benjamin?

Intuizione decisiva come spartiacque nel rapporto tra opera d’arte in sé, fissata nella storia, unica e irripetibile e modalità della sua potenziale fruibilità, ciò che riguarda in sintesi estrema la relazione tra l’arte e il talento dell’autore da una parte e lo spettatore dall’altra. L’autenticità intesa come unicità ed irripetibilità dell’opera d’arte, dal suo esistere solo all’atto della sua produzione configurava addirittura fino ad allora il concetto stesso di falsificazione rispetto ad ogni tentativo della sua riproduzione.

Tuttavia – e in questo si misura la potenzialità innovativa dell’intuizione di Walter Benjamin – l’avvento di nuove tecniche riproduttive già a partire dalla prima metà del ‘900 poteva contribuire a diffondere a livello di massa la fruibilità dell’opera arte, prima vincolata all’hic et nunc della sua creazione: in ciò il sociologo tedesco – ben a ragione – anticipava con lungimiranza i temi della democrazia come metodica sociale che consente il più esteso accesso alla singolarità di un oggetto o di un evento ed è facile immaginare come questo concetto abbia radicalmente mutato l’idea di fruibilità.

Un tempo privilegio di pochi, poi attraverso la stampa, i musei, l’inclusione nei programmi di studio, un fenomeno sempre più divulgativo. Benjamin seppe cogliere per primo la portata di questo fenomeno, intuendo come l’introduzione di nuove tecnologie volte a produrre, riprodurre e diffondere l’arte potrebbero condizionarne l’originalità creativa, la genialità, l’unicità, finanche il valore eterno e l’alea di mistero che la avvolge. Fino alla perdita di quella che Benjamin definisce la sua “aura”, intesa come carattere individuale e di unicità dell’opera d’arte originale: da evento unico e irripetibile essa si trasforma attraverso la molteplicità delle riproduzioni.

Basti pensare al cinema come forma primordiale della fruizione artistica di massa: lo spettatore viene soppiantato dal pubblico e l’evento estetico diventa consumo. Per poi considerare l’influenza dei media e dei social nell’era contemporanea, dalla TV al web, dalla tecnica alla tecnologia alla digitalizzazione che viene adesso enfatizzata come modello di comunicazione necessario.

Nel ragionamento di Benjamin -che resta attuale- la riproducibilità dell’opera d’arte attraverso modalità sempre più sofisticate ed evolute enfatizza la preponderanza della rappresentazione e della fruizione estetica-espositiva rispetto allo spirito primordiale del gesto dell’artista, che è essenzialmente un valore culturale, quasi di immedesimazione e di intima devozione.

In ciò consiste “l’aura” che viene scemando: la diffusione estensiva dell’opera d’arte mentre democratizza la cultura finisce per perdere quel legame primigenio che univa l’artista alla sua produzione, fino all’immedesimazione dell’unicità-autenticità che all’atto pratico non sarà mai riproducibile.

Sviluppo della tecnica e formazione di società massificate fino alla globalizzazione possono generare una dissolvenza dell’arte tradizionale, attraverso la perdita dell’aura e dell’originalità autentica.

La comunicazione e la cultura dei social e dei media ha sostituito a poco a poco quella che si trasmette per esperienza e competenza, perdendo in originalità e soggettività.

La globalizzazione è anche questo livellamento in cui siamo – come dice De Rita – coriandoli sparpagliati  e fruitori di una conoscenza imposta e fatta prevalentemente di luoghi comuni e di pensiero pensato altrove.

Si finisce allora nell’isolarsi per scrivere, leggere, suonare, produrre per se stessi, pur nella consapevolezza che la divulgazione di un testo, di un saggio, di uno spartito sono legati a incidenze commerciali: la tecnologia non sempre valorizza la qualità del prodotto, quanto la sua ricettività nel mercato globale.

L’estetica diventa moda imponendo criteri non squisitamente artistici, il destinatario finale non è lo spettatore del bello ma l’utente della tendenza prevalente: ci sono sempre meno artisti in senso classico, capaci di produrre un unicum e sempre più influencer come divulgatori di azioni e prodotti massificati.

Circola molta frustrazione tra chi si cimenta nel tentativo di produrre qualcosa di personale: la democrazia applicata all’arte non sempre coglie originalità e talento, in genere la genialità è un valore riconosciuto postumo, a forza di duplicare e riprodurre l’omologazione prende il posto dell’originale.

Ma credo che sottotraccia questi inediti d’autore riemergano a poco a poco, per il gusto e il piacere di chi si occupa di riscoprirli e valorizzarli. Oggi viviamo in una sorta di casting mediatico in cui ci sono molte comparse e poche eccellenze note.

Mi chiedo anche spesso perchè un Caravaggio, un Mozart, un Leopardi per tralasciare il resto oggi non ci sono più: la stagione dei geni universali svincolati dal tempo e dallo spazio sembra essere finita.

Ci sono pochi autori e molti traduttor dei traduttori: e qui forse lo stesso Benjamin potrebbe essere colto da un ripensamento nel considerare la riproducibilità dell’opera d’arte come conquista della democrazia.

La possibilità di fruire di un’immagine , di un quadro di un brano musicale grazie alla tecnica che ne facilita la diffusione forse ci ha allontanato dal gusto di produrre qualcosa di veramente originale.

Come mi ha detto un giorno Pupi Avati bisogna saper distinguere tra passione (che dipende dalla volontà) e talento che è DNA, estro, genialità intrinseca: una dote innata, per dirla a chiare lettere.

Forse l’arte sta diventando un terreno fertile dove coltivare molte illusioni.

Guardando a ritroso, leggendo un testo d’autore, ascoltando un brano classico  o visitando un museo sembra di capire che da tempo la bellezza artistica– come immediatezza espressiva irripetibile se pur certamente riproducibile all’infinito-  volge sempre più al passato. 

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Erica Venditti

Erica Venditti, classe 1981, dal 2015 giornalista pubblicista. Dall'aprile 2012 ho conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Ricerca Sociale Comparata presso l’Università degli studi di Torino. Sono cofondatrice del sito internet www.pensionipertutti.it sul quale mi occupo quotidianamente di previdenza.

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