N.B. Per leggere la prima parte dell’articolo clicca qui.
Vediamo quali potrebbero essere i correttivi per evitare di andare in pensione più tardi e al tempo stesso garantire una pensione dignitosa ai lavoratori della generazione digitale. Tali correttivi serviranno non soltanto ai lavoratori (i quali alla peggio, in mancanza di alternative, cercheranno lavoro all’estero), quanto invece, e soprattutto, allo Stato. Se lo Stato non vorrà diventare un deserto sociale dovrà adottare efficaci misure volte a garantire occupazione stabile e pensioni adeguate.
La disoccupazione è materia dello Stato, così come l’inflazione è materia della Banca Centrale. Quindi spetta allo Stato risolvere il problema della disoccupazione, adottando tutti i mezzi e le misure che ritiene idonei per assicurare che ogni cittadino in cerca di lavoro lo trovi.
Come la Banca Centrale in presenza di una economia surriscaldata aumenta il tasso di interesse per frenare la domanda di investimenti al fine di non fare aumentare l’inflazione, così lo Stato, se il valore dell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (Desi) supera un determinato valore di soglia, dovrebbe far leva su una “tassa digitale” per frenare (almeno temporaneamente) la domanda di tecnologie digitali al fine di non fare aumentare la disoccupazione.
Una “tassa digitale” in effetti è stata introdotta dal nostro Governo: si chiama “imposta sui servizi digitali”.
L’imposta sui servizi digitali è stata istituita con la legge N. 135 del 30 dicembre 2018, ma è solo con la legge di bilancio 2019 che viene resa attuativa a decorrere dal 1° gennaio 2020. L’imposta si applica ai ricavi derivanti dalla fornitura di servizi che veicolano la pubblicità, servizi che consentono agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, servizi che facilitano la fornitura diretta di beni o di altri servizi (in pratica tocca imprese editoriali, Facebook, Google, Amazon).
L’imposta sui servizi digitali ha le caratteristiche di una “web tax”, dal momento che si applica al web, ai contenuti digitali (i servizi digitali appunto). La web tax non è lo strumento idoneo a favorire l’occupazione dell’uomo in luogo di quella dei robot, dal momento che non si applica ai robot.
Il mezzo per assicurare la continuità contributiva dei lavoratori che andranno incontro a discontinuità lavorative potrebbe essere invece una “digital tax” che estenda la imposta sui servizi digitali ad altre tecnologie digitali: macchine automatiche, robot, intelligenza artificiale, sistemi di disintermediazione digitale in genere.
La “digital tax” dovrebbe essere, in altre parole, una imposta sul reddito da lavoro prodotto da macchine automatiche (Iraut): questa verrebbe versata dall’imprenditore, proprio come l’imposta sul reddito da lavoro prodotto dalle persone fisiche (Irpef) viene versata dal lavoratore.
Tramite l’Iraut i contributi non versati dal lavoratore figurerebbero come contributi versati dalle macchine automatiche (ovvero automi). In altre parole, i contributi degli automi finanzierebbero le contribuzioni dei lavoratori temporaneamente disoccupati, così come i contributi dei lavoratori occupati finanziano le pensioni dei pensionati.
Tuttavia il miglior correttivo alla criticità del sistema contributivo consiste nell’eliminare la criticità stessa, garantendo l’occupazione e la continuità lavorativa nel tempo. Questa soluzione sarebbe a portata di mano. Ma questa è un’altra storia.
Claudio Maria Perfetto