ROMA. Compie 70 anni la scoperta del litio per la cura di disturbi psichiatrici. A dimostrarne per la prima volta l’efficacia, nel 1949, fu John Cade, psichiatra australiano che iniziò a studiarlo durante la prigionia. Oggi litio è usato da milioni di persone al mondo ed è il trattamento standard per i disordini bipolari. A ripercorre la storia di una “scoperta epocale” è “Lithium”, un libro dello psichiatra americano Walter Brown (Liveright Publishing, 2019), recensito su Nature Online.
L’inizio delle ricerche di Cade risale alla Seconda Guerra Mondiale, quando, durante la detenzione nel campo di prigionia giapponese di Changi a Singapore, iniziò a notare il legame tra alcune carenze alimentari e malattie nei suoi compagni prigionieri. Dopo la guerra, proseguì le sue indagini in un’area abbandonata dell’ospedale psichiatrico di Bundoora vicino a Melbourne, in Australia, senza avere accesso ai progressi della tecnologia o alle strutture moderne. Qui scoprì che il carbonato di litio – già in uso per trattare la gotta – tendeva a calmare le cavie: quando venivano girate sulla schiena, invece di mostrare irrequietezza lo guardavano placidamente. Si chiese la sostanza potesse avere un effetto tranquillizzante anche sui suoi pazienti.
Dopo averlo provato su se stesso, iniziò a trattare dieci persone con mania depressiva: nel 1949, riportò i rapidi e netti miglioramenti trovati in uno studio pubblicato nel Medical Journal of Australia. Il documento, all’epoca, passò inosservato. A contribuire alla diffusione di questa sostanza fu uno psichiatra danese, Mogens Schou, che, a partire dagli anni ’50 condusse una serie di esperimenti, culminati in uno studio clinico in doppio cieco, controllato con placebo, pubblicato nel 1970 su The Lancet, che stabilì senza dubbio che il litio era efficace per la maggior parte delle persone con disturbo bipolare, incluso il fratello dello stesso Schou. Ancor oggi il litio viene utilizzato per stabilizzare l’umore di milioni di persone con disturbo bipolare, problema che colpisce un individuo su 100 a livello globale e che, in pazienti non trattati aumenta di 10-20 volte i tassi di suicidio.