Di nobile famiglia, Santa Elisabetta nacque a Bonn, in Renania, nel 1129. All’età di 12 anni i genitori (di cui si conosce soltanto il nome del padre Hartwig), decisero di affidarla per l’educazione alle monache della doppia abbazia benedettina di Schönau sul Reno, nei pressi di Sankt Goarshausen.
In monastero Elisabetta prese il velo e intraprese la professione religiosa nel 1147. Dieci anni più tardi venne eletta magistra, ossia superiora delle monache che non avevano la badessa, in quanto dipendenti dall’abate Egberto, fratello di Elisabetta, che ebbe grande influenza su di lei. Fu anche suo consigliere spirituale e primo biografo. Mentre un altro fratello, Ruggero, ricopriva l’incarico di prevosto a Pöhlde , in Sassonia, ed il nipote Simone, divenne a sua volta abate di Schönau.
Reduce da una grave malattia nel 1152, Elisabetta cominciò ad avere visioni ed estasi, durante le quali si trovò in numerose occasioni a parlare con Nostro Signore, con la Madonna e con i santi del giorno. Estasi che duravano talvolta parecchie settimane e finirono per debilitarla nel fisico, cagionevole sin dall’infanzia. Le condizioni di salute peggiorarono sin dai primi mesi del 1164 e il 18 giugno dello stesso anno Elisabetta lasciò la vita terrena.
Venerata in vita e sopratutto dopo la morte, solo nel 1584, all’epoca di Gregorio XIII, il suo nome venne iscritto nel Martirologio Romano alla data del 18 giugno. Nel 1854, poi, il suo ufficio liturgico venne inserito nel proprium della diocesi di Limburgo (Assia), che celebra tuttora la festa della santa il 18 giugno. Delle reliquie della santa, profanate dagli Svedesi nel 1632, si è salvata soltanto la testa, che attualmente è venerata nella chiesa parrocchiale di Schönau.
Per mano del fratello Egberto (morto nel 1184), Elisabetta ha lasciato testimonianza di tutte le sue visioni, raccolti nei tre ‘Libri visionum‘, che hanno avuto larga diffusione durante il Medioevo. Di lei restano anche 23 lettere dirette a vescovi, abati, monache (tra quest’ultime figura anche una lettera indirizzata a santa Ildegarda), in cui spesso l’estatica monaca si lascia andare ad un linguaggio alquanto duro, specie per stigmatizzare i vizi dell’epoca, un linguaggio in vero contrasto con la semplicità del suo animo infantile.
Alessio Yandusheff Rumiantseff