Il 14 settembre del 1812, alle porte di Mosca, Napoleone apprese che il generale Kutuzov aveva improvvisamente interrotto la ritirata verso est e stava scendendo con le sue truppe verso la Russia meridionale. Capì che la guerra non era finita e che i russi si preparavano a nuove battaglie.
Ma salì a cavallo e decise di entrare nella città. La vide improvvisamente ai suoi piedi, dal monte della Salvezza, un luogo dove i pellegrini russi rendevano omaggio alla città santa inginocchiandosi e facendo più volte il segno della croce. Aspettò per qualche tempo che una delegazione parlamentare gli portasse umilmente le chiavi della capitale, ma gli fu detto, infine, che la città era deserta.
Salì nuovamente a cavallo, raggiunse la barriera di Dorogomilov e attese ancora, inutilmente. Sempre impulsivo e impaziente, Gioacchino Murat, re di Napoli, lo esortò ad avanzare. Napoleone acconsentì, ma non comprendeva quella inattesa accoglienza e disse: «Forse gli abitanti di questa città non sanno nemmeno arrendersi; tutto qui è nuovo infatti: essi lo sono per noi e noi lo siamo per loro». Che la città fosse deserta fu confermato da qualche residente francese.
Con l’eccezione dei mendicanti e di alcuni militari dispersi, tutti se n’erano andati. Erano vuote le case, gli alberghi, le chiese, i palazzi della nobiltà. Dalla barriera di Dorogomilov Napoleone si mosse mentre cadeva la notte. Ma i ricognitori della cavalleria e qualche russo arrestato nelle strade, fra cui un commissario di polizia, gli avevano segnalato nel frattempo alcuni incendi scoppiati in diversi quartieri. La vista del Cremlino, quando ne oltrepassò le porte, rincuorò l’imperatore. Gli parve di avere raggiunto il vertice della sua epopea militare e molti lo udirono esclamare più volte: «Eccomi dunque finalmente a Mosca, nell’antico palazzo degli zar! nel Cremlino!». Dette ordine perché ogni incendio venisse subito spento e scrisse una lettera all’imperatore Alessandro in cui faceva proposte di pace. La lettera fu affidata, per la consegna, a un ufficiale superiore russo che era stato trovato nell’ospedale maggiore della città e Napoleone si addormentò, quella sera, nella convinzione che la risposta sarebbe stata positiva. Ma gli incendi cominciarono a divampare durante la notte e i francesi non tardarono a scoprire che dietro il fuoco vi era una precisa strategia. Un globo in fiamme fu lanciato contro il palazzo dei Trubeckoj, la Borsa fu incendiata da soldati russi, usciti dall’ombra, che correvano attraverso la città con lance incatramate. Nelle case di legno bastava gettare una granata nella stufa perché l’intero edificio bruciasse come un fuscello. Furono visti uomini e donne che correvano da una casa all’altra impugnando una torcia.
I militari francesi facevano del loro meglio per spegnere gli incendi, arrestavano e giustiziavano sul posto gli incendiari, salvavano i cavalli e allontanavano dal fuoco i carri carichi di polvere da sparo. Ma combattevano contro il peggiore dei nemici: un vento che estendeva a vista d’occhio la portata delle fiamme. Napoleone assistette all’incendio, sempre più vicino, dalle finestre dal palazzo. Sperò ancora per qualche tempo che sarebbe stato domato, ma si arrese quando Murat e il principe Eugenio, vicerè del Regno d’Italia, lo esortarono ad abbandonare il Cremlino. Fu trovata una piccola porta sul lato della Moscova e fu necessario correre attraverso le fiamme di una stretta via, ma l’imperatore e la sua guardia riuscirono ad abbandonare Mosca e a raggiungere una villa imperiale nei pressi della città. Era il 16 settembre. Il giorno dopo, guardando verso Mosca, Napoleone vide una «immensa tromba di fuoco che si innalzava turbinando verso il cielo ». Dopo un lungo silenzio, disse: «Tutto questo è per noi presagio di gravi sventure».